Il torto del soldato

Il nazismo visto da altre prospettive: quella degli occhi postumi di una figlia nei confronti di un padre incapace di rinnegare; quella della mente attenta di uno scrittore che traduce dall’yiddish Il canto del popolo ebreo messo a morte, di Itzak Katzenelson.

Laconico Il torto del soldato, ancor più di altri racconti scritti da Erri.
Che l’accaduto narrato sia finzione o realtà, è un mero dettaglio.
Ciò che importa è che scava dritto e gelido verso il fondo, fino alle lacrime.

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Tutto il bene che si può

Lettura disarmante, che all’inizio non si fa capire, pare un incipit senza fine, inconsistente nel suo evolversi. Poi però i personaggi prendono vita in modi inaspettati, qualcosa di insondabile si insinua fra le pagine rivelandoli tormentati, tremanti, fragili.
Ogni loro gesto trasuda solitudine, ogni loro parola sottende follia.

Tutto il bene che si può è un libro che fa male nel male che descrive e che fa bene nel bene che racchiude. Lascia qualcosa dentro, in un modo difficile da spiegare.

Va letto, Rye Curtis.

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Le spie non devono amare

Indecifrabile nello stile, superato nel linguaggio, elementare nella costruzione narrativa.
A tratti sembra un noir, a tratti un diario intimo, a tratti un romanzo rosa.
In alcuni frangenti fa sorridere per certe ingenuità, in altri moderatamente appassiona, in altri ancora  – i più frequenti – lascia senza opinioni.

Con una trama che più che una trama è una serie di eventi messi in fila, “Le spie non devono amare” ha rappresentato, forse, un tentativo di innovazione, all’epoca.

Una cosa è certa: Scerbanenco aveva l’allure dell’affabulatore.

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Vite al lavoro

Gli esperimenti di scrittura creativa hanno un fascino particolare.
Lo si scorge negli spazi bianchi fra le righe dei racconti.
É lì che si annida e velatamente si disvela la forza endemica che spinge alla scrittura.
Nelle zone vuote del narrato compare la logica, più o meno precisa, con cui uno scrittore che non pensa di essere tale, si ritrova ad esserlo.
Giocoforza o per istinto creativo, le pagine non mentono mai.

Ecco allora che racconti didascalici lasciano spazio a piccole autobiografie, tentativi fantasy si alternano a criptici misteri irrisolti, una perla dotta e letterariamente ricercata apre la strada al mondo dei QR Code onirici e dell’intelligenza artificiale.
Non si tratta qui di dire chi scrive bene o meno bene, chi ha talento o chi non ne ha, ma di apprezzare il progetto che ha dato vita ad una raccolta di diciotto racconti sul tema lavoro ideato da un datore di lavoro e affidato a chi lavora.

In questo volume variegato e composito io leggo un percorso a tutto tondo, generato da un labirinto creativo e frutto di uno sforzo collettivo. E un po’ di invidia la provo, perché dev’essere entusiasmante fare parte di un disegno così corale.
Grazie ai cari amici chi me l’hanno regalato, questo Vite al lavoro.

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Un’altra giovinezza

Il genere è indefinibile, ondeggia fra lo spionaggio e la fantascienza, a tratti ricalca una biografia e in certi frangenti vira con forza verso il topos del diario intimo, con un tocco paranormale.
Il retroterra è impegnativo, intriso di letteratura colta, pervaso di continui richiami alla psicanalisi e
rimandi a conoscenze profonde sulla storia delle religioni.

Non ci ho capito granché, lo ammetto: la trama va e viene in tempi e luoghi sfasati, con personaggi che compaiono dal nulla e che si dà per scontato li si possa già conoscere, come se ci fosse un continuo, ma inutile sforzo di generare empatia nel lettore.

Un’altra giovinezza di Mircea Eliade è per me un mistero, che rimarrà tale.

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Violeta

A voler usare un linguaggio moderno la si definirebbe comfort zone, ovvero quella dimensione esistenziale e di pensiero in cui ci si sente protetti, avvolti da un duraturo calore famigliare e all’interno della quale si percepisce di avere ogni cosa sotto controllo, con delicatezza.

Leggere la Allende è proprio così, sai cosa troverai nei suoi romanzi, hai certezza del suo lineare fluire e del suo mai sterile divagare, sai che il narrato non tradirà le aspettative immaginifiche né mancherà dei dettagli storici, e non puoi certo dubitare che il senso di rassicurazione che proverai una volta conclusa la lettura sarà totale.

Violeta non è un’eccezione, ha tutti i crismi “Allendiani” del caso, che ti fanno essere felice di avere anche questo suo ultimo libro nella tua casa.
Leggere la Allende è proprio così, da tutta una vita.

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L’ultima intervista

Scrivere racconti fingendo che siano interviste è un esercizio non semplice.
Comporre un intero romanzo fingendo che sia un’intervista è compito ancor più complesso.
Orchestrare un’opera omnia millimetricamente perfetta in cui i racconti si insinuano nel romanzo attraverso le domande di inesistenti intervistatori è impresa che ben pochi autori sono in grado di compiere.

Ne L’ultima intervista, però, ciò che stupisce è altro.
Il subdolo depistaggio che Eshkol Nevo attua ai danni del lettore per costringerlo ad invertire continuamente le traiettorie emotive tratteggiate dalla sua prosa.
L’inganno con cui Eshkol Nevo invita il lettore a credere che il testo sia sincero nel suo essere immaginariamente autobiografico.
Il candore disarmante con cui Eshkol Nevo rivela di sé implicazioni nefaste e miseri vantaggi dell’essere scrittore.

Il lettore è senza via scampo, risucchiato in un vortice di fantasie che potrebbero essere reali, senza la minima possibilità di sapere se e dove ne L’ultima intervista si possa scorgere un seppur flebile barlume di verità.
Chapeau.

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Il tempo migliore della nostra vita

È il mio libro del 2023 e non cambierò idea. Supera di gran lunga tutti gli altri letti quest’anno, non solo per l’innata e universalmente riconosciuta capacità narrativa del suo autore, ma soprattutto perché Il tempo migliore della nostra vita è una storia di guerra che imprevedibilmente riconcilia.

Ha la struttura di un romanzo, ma è una plurima biografia intrecciata.
Ha il ritmo di un romanzo, pur narrando eventi e personaggi storici che attraversano il secolo.
Ha persino la metrica di un romanzo, ma si fa leggere con l’attenzione che si dedica ad un saggio.

È tante cose questo libro, è intriso di messaggi, significati, profondità, tutte consegnate al lettore che ha il compito delicato di conservarle con cura.

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Il richiamo del cuculo

L’ambientazione è British e la trama è ben congegnata.
L’incastro funziona, ha il tempo e i ritmi tipici del classico giallo inglese.
Lo stile è semplice, scorrevole, essenziale, come si conviene ad un noir finalistico senza velleità letterarie.

Galbraith in realtà è la Rowling che, abbandonati maghi ed incantesimi, regge cinquecentocinquanta pagine di storia pur non facendo accadere sostanzialmente nulla.
Telegrafico il commento per una storia così, che lapidaria scivola via.

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Via crudes

Fra le pagine di Via crudes, tutti insieme, in un modo che non riesco a spiegare, convivono esseri inimmaginabili: fantasmi di ballerine, mostri che si orientano col solo olfatto, pastori che leggono Dumas, Federico Fellini e Giulietta Masina nella loro tomba, il cavallo di Matilde di Canossa, prigionieri silenti, perfide lavandaie e stregoni capaci di fare magie.

Tredici sono le stazioni che attraversa il protagonista nel suo peregrinare.
Quel che incontra, ovunque egli si fermi, è la crudezza della natura umana.
Quel che riceve, forse, è il senso della vita.

Scritto come una parabola, Via crudes non è un piccolo libro; è un immenso racconto che, ben prima del metaverso, coglie il cuore infinito dell’immaginifico.
Incantevole scrittore, Loriano Macchiavelli.

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Certi bambini

Un libro che fa male.
Non come un pugno nello stomaco.
Non come uno schiaffo in pieno volto.
È più un dolore sordo che scava e nello scavare angoscia.

Diversi i piani narrativi e temporali per descrivere un’infanzia violenta e crudele.
Diversi i punti di vista che non lasciano scampo.

Scritto
più di vent’anni fa, ma ogni giorno più attuale.
De Silva poliedrico, scrittore a tutto tondo, di lui si legge ogni cosa.

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Tre cene (l’ultima invero è un pranzo)

Tre racconti semplici, tradizionali, genuini che attraversano epoche e scavallano generazioni.

È come stare seduti in cerchio ad ascoltare il narratore di turno che intrattiene il gruppo di avventori con un “filòs” emiliano d’altri tempi. 

Buon cibo e vino contadino, rimpianti e nostalgia, impervie salite e ricordi che affiorano.
Non c’è molto altro da dire di queste “Tre cene”.

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Lo scarabeo della Signorina Benson

È pur vero che in estate si legge un po’ di tutto.
È altrettanto vero che può andar bene inserire, fra una lettura scelta e un’altra desiderata, un pezzo aggregato un po’ per caso in un acquisto complessivo, sperando che l’istinto non fallisca.

Va un po’ meno bene, invece, ritrovarsi a pensare, mentre lo si legge, che la storia è storicamente inverosimile, che sia l’evolversi che il finale sono abbastanza prevedibili e che non c’era bisogno di rendere il tutto così caricaturale.

Dispiace poi arrivare alla fine e constatare che di un libro così potevo tranquillamente fare a meno. Però Rachel Joyce ha venduto milioni di copie de Lo scarabeo della Signorina Benson e quando un’autrice riesce a fare del proprio romanzo un successo planetario, beh, ha sempre e indiscutibilmente ragione lei.

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La simmetria dei desideri

La simmetria dei desideri.
Che è simmetria di sentimenti e anarchia di dolori.
Che è corrispondenza non voluta nelle distanze ricercate.
Simmetria che si sdoppia, in antitetici rivoli e poi torna ad unirsi, in un unico fluire.
Simmetria che è fronte e retro di uno specchio, cornice di solide amicizie maschili che cementano anni, legami, storie.
Simmetria su cui germogliano amori, persi e ripresi, contrastati e disperati.
E poi i desideri, che sono speranze.
E poi le speranze, che sono sogni.
Quei sogni che annegano, nella realtà.

La simmetria di Eshkol Nevo è anima per chi legge.

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Il Club dei delitti del giovedì

Un piatto di delicatezze miste a grasso di rognone, da gustare comodamente seduti ai margini di un gazebo in uno sconfinato prato del Kent bagnato da una pioggerella leggera.

Questo è Il Club dei delitti del giovedì, un giallo talmente classico da risultare mirabilmente anacronistico, così intriso di indizi disseminati, di logiche deduzioni e di passaggi efferati, narrati da un gruppo di arzilli anziani, che fra un tè con i pasticcini ed un superalcolico bevuto di nascosto, svelano misteri atavici, celando ognuno il proprio segreto.

Ci sono diverse influenze qui: la ovvia Agatha Christie, il british style così inconfondibile, l’immancabile parroco di campagna ed i personaggi chiave femminili dotati di quell’ironia ingenua sotto cui cova una profonda sagacia.

Da Richard Osman una perfetta lettura estiva.
E niente più.

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Café Royal

Pillole monografiche, appena accennate eppur immersive, riempiono le pagine di Café Royal. Tratteggiate da pennellate impressioniste, fra i capitoli scorrono trame indipendenti destinate ad esaurirsi nel breve, per ricomparire poi, con piccoli lampi, in altre trame indipendenti, qualche capitolo più in là.

Racconti contemporanei inclusivi degli equilibri di genere, della modernità tecnologica, della fragilità dei sentimenti, sfiorano appena il Café Royal che dà loro il titolo, facendone da sfondo. Somigliano ad una serie televisiva antologica o a una perfetta sceneggiatura per un film italiano alla “Manuale d’amore”.

Vola via leggera questa sequenza di nitide fotografie scattate con millimetrica precisione da Marco Balzano.

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Acquanera

Una storia nera di donne, densa e vischiosa come il pantano che lambisce le rive di un lago. Elsa, Onda e Fortuna, segnate in linea retta da un dono visionario e da un unico destino, affondano i loro archi vitali in paludi emotive senza vie di scampo e lì trovano Luce, anima candida bisognosa di tenerezza. Il tormento è la chiave di ognuna di loro, in questo romanzo muliebre in cui gli uomini, marginali ed inutili, sono poco più che comparse.

È onirico Acquanera, in un modo che tocca brutalmente la realtà.
Dai sogni nasce la concretezza degli eventi, quasi sempre nefasti, il cui riverbero annienta le solitarie esistenze
che a pelo d’acqua sopravvivono.

Nell’emarginazione c’è la forza dei legami, indissolubili anche se non saldati, nel buio rigogliosi, anche se non coltivati.
Ciò che ha dell’incredibile è qui naturale, come la capacità letteraria impressiva di Valentina D’Urbano.

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Trilogia di New York

Sono tre romanzi distinti, ma in fondo è uno solo, Trilogia di New York.
È allucinato e imperscrutabile.
È Illogico e ossessivo.
È accidia strisciante che annichilisce la vita.
È fortezza di domande non formulate che rimangono necessariamente senza risposta.
È spiare gli altri per poter vedere sé stessi.
È apologia del caso che genera eventi, soppiantata da unico disegno che li circoscrive.
È credere nel potere del linguaggio di definire la realtà sfuggente.
È questo ed è il contrario di tutto questo.
È un Paul Auster che va letto, assolutamente.

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Il libro delle case

Stanze, armadi e pavimenti, scale, pareti e mobili a testimoniare drammi di vita, aperture di crescita, confini mai varcati e protezioni inutili.
Il libro delle case fa nascere accadimenti dalle cose, sentimenti dagli oggetti, relazioni umane dall’architettura degli edifici. Gli ambienti non solo riflettono le storie, ma le incarnano, le sagomano, danno loro forma nel riverbero degli spazi, ampi o angusti, reali o figurati che siano. Parlano più delle parole, sono significante e significato, indissolubili nell’intrecciarsi dei continui sbalzi temporali che ci raccontano personaggi senza nome, i loro legami, le rivelazioni inaspettate di “Io”, il protagonista pronome che abita ogni casa.

Emerge una tristezza asettica e senza fronzoli da questa lettura straniante. Un dolore distaccato, non di pancia ma di cervello, senza le viscere coinvolte, giusto un lucido raziocinio a rendere ogni cosa intelligibile.

Colpisce come lama fredda Il libro delle case, che nella sintassi echeggia lo stile unico di Erri de Luca, senza pretesa di imitazione alcuna, ma con la stessa incisività statica tipica delle prose scarne che scavano solchi profondi nella mente di chi legge.

Una scoperta inaspettata, Andrea Bajani.
Originale e spietato, Il libro delle case.
Finalmente qualcosa di nuovo, a muovere l’aria.

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Gli aspetti irrilevanti

Da uno scatto nasce un’idea, da un volto una storia, da uno sguardo un personaggio.
Immagini di uomini e donne sconosciuti, stampate su carta patinata, fanno da copertina ai capitoli de “Gli aspetti irrilevanti”. Paolo Sorrentino cuce su ognuno di loro vite immaginarie, che cadono morbide sulle loro sembianze e laconiche sui loro volti.

Li senti parlare, li vedi muoversi, ti sembra di averli già incontrati, chissà dove, chissà quando.

Ce ne sono ventitré e dopo aver conosciuto l’ultimo, risfogli le pagine al contrario perché non sai quale identità scegliere nell’ampio ventaglio umano di questa finzione letteraria.

È divertente, è saggio, è persino un po’ apodittico.

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A grandezza naturale

Essere padre, nascere figlio, scoprirsi figlia, anche quando non si vuole esserlo, anche quando lo si diventa o ce lo si nega.

Colpe ereditate, ribellioni che non si consumano, distanze identitarie, vergogne inscalfibili, rifiuti, attese, negazioni e salvezze nelle otto storie (più un fatto di cronaca) che compongono A grandezza naturale.

Con l’arte figurativa che fa da sfondo e diventa sostanza, oltre che paradigma, ogni frase è una sentenza, ogni pagina una lingua che Erri reinventa e che pian piano si fa musica, nel suo ritmato incedere.

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Operazione Shylock

Due Philip Roth, quello vero e quello falso, si sfidano. Il primo inganna sé stesso ingannando il suo doppio; il secondo si impone sulla scena a scombussolare vite, storie, ricordi.

Operazione Shylock è un dedalo impervio in cui, alla continua ricerca dell’identità ebraica, nello scrittore si nasconde l’uomo. Nel leggerlo, proprio quando si ha la sensazione di avere in testa una gran confusione, ecco che Roth ferma il narrato e riepiloga gli eventi a vantaggio del lettore che da lì riparte, cercando, invano, di capire. Nel proseguire, quando raramente sembra di aver afferrato il ruolo del vero Roth e il significato del falso Roth, ecco che la scena si ribalta e le certezze scompaiono. Un labirinto perfetto dove l’immaginazione sovrasta la realtà e la realtà capovolge l’immaginazione, la concretezza si fa evanescenza e il lettore ne esce frastornato.

Ricco di personaggi improbabili, narcisistico all’esasperazione, intrecciato a più livelli, denso di richiami dotti, Operazione Shylock è intriso di pensiero politico e filosofico. Una sfida faticosa, però Roth scrive divinamente, in un immenso fluire al limite del logorroico che desta infinita ammirazione.

Lettura complicata, sfidante, altissima.

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Jezabel

Vien da pensare a Narciso, vien da pensare a Dorian Gray, vien da pensare a rimbalzi di richiami, evocazioni, memorie classiche di cui Jezabel è intriso.

La protagonista, Gladys, incarna egoismo, vanità, insicurezza; madre odiosa incapace di essere madre perché dagli sguardi degli uomini dipendente oltre ogni ragionevolezza. Stucchevole nel suo ripetere incessantemente dinamiche di concupiscenza tardiva, fastidiosa nella sua ricerca spasmodica di continue conferme della sua bellezza.

Scritto nel 1936, Jezabel è ancora molto attuale, però la Némirovsky ha creato una storia che indispone e le letture che indispongono tanto piacevoli non sono.

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Nemico, amico, amante…

Mentre leggo la raccolta di racconti Nemico, amico, amante… penso ai punti fermi che la attraversano:

La forza non ricamata dei personaggi femminili, una forza endemica, risoluta, un dato di fatto inoppugnabile.
La
completezza, perché ogni piccola storia racchiude un intero universo di cui o conosciamo o intuiamo il più nascosto, minuscolo frammento.
La
facilità con cui Alice Munro descrive percorsi intimi intensi e complicati che si rivelano lampanti e lineari solo grazie alla sua prosa pulita.
La
laconicità dei finali, nessun colpo di scena, nessuna rivelazione, ma la semplice constatazione di come è la vita, che spesso non incanta, semplicemente scorre.

Dopo i primi due racconti non riuscivo a capire il perché del Nobel proprio a lei, poi invece, leggendoli tutti, ho capito la pienezza, ho colto la totalità e allora sì che ho capito.

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La strada delle ombre

Ed eccolo qui, arrivato casualmente dopo un thriller che non era un thriller, un dichiarato thriller che thriller lo è davvero.

Nel leggere “La strada delle ombre” al lettore non manca nulla: il mistero ben congegnato, la tensione che cresce, il crimine efferato, gli indizi sparsi qua e là, i dettagli raccapriccianti, il quadro d’insieme che si rivela pian piano e il finale cruento da vera crime story.

Scivola via veloce la scrittura semplice di Mikel Santiago, che tratteggia personaggi stereotipati di cui la trama necessita, ambientazioni iperboliche che servono al contesto, visioni oniriche rivelatrici di imprescindibili dettagli.

Non che lasci il segno, ma è lettura godibile.

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Appartamento 401

È descritto come un noir, Appartamento 401 di Yoshida Shūichi.
Nella sinossi vengono evocati crimini, aggressioni, violenze aberranti, che poi nel romanzo non sono narrate come tali e rimangono sullo sfondo di altre storie che si intrecciano.

Del thriller non ha nulla, Appartamento 401: non la tensione che cresce, non la curiosità di scovare il colpevole, non i dettagli raccapriccianti.
Del classico racconto giapponese, invece, Appartamento 401 ha tutto: la mancanza degli estremi emotivi, la presenza del ragionamento lineare, le riflessioni intime e permeate da una logica di fondo che ne cerca costantemente la coerenza.

Appartamento 401 non ha niente di più, né niente di meno di tanti altri romanzi scritti così.

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Se mi guardo da fuori

Ha la passione per le descrizioni dei volti, Teresa Righetti.
Non c’è personaggio di
Se mi guardo da fuori di cui non conosciamo l’esatta fisionomia: la forma degli occhi, gli angoli della bocca, l’incurvatura del naso.
E
pure per gli abiti, sappiamo sempre cosa indossano tutti, in ogni minimo particolare, dai maglioni oversize alle scarpe, dalle camicie fresche di lavanderia agli stivali, dai pantaloni di lino ai cappotti di lana.

Introspettivo, chiuso sulla protagonista, ripetitivo nel suo girare a vuoto.
L’insicurezza
della protagonista, Serena, regna sovrana e permea l’atmosfera.
Se questo era l’intento:
ammantare di insicurezza ogni dove e ogni perché, è di certo riuscito. Se invece si voleva dar conto di cosa c’è dietro a questo tipo di disagio, allora no, il libro si ferma prima.
Lo stile frammentato, poi, qui non è cifra stilistica. Sarà di certo musica moderna per orecchie più giovani delle mie.

Così, fino al penultimo capitolo.
Poi arriva l’ultimo, che è sorprendentemente sentito, scorrevole, viscerale e che in parte salva il romanzo, anche se fuori tempo.

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Strane cose, domani

All’inizio ho storto il naso, sembrava una trama trita e vagamente forzata.
Poi ho inarcato le sopracciglia, nel capire gli ingranaggi l’interesse è aumentato.
Le labbra, dopo, si son serrate nel veder emergere i dettagli più truci.
Ho spalancato gli occhi, infine e lo scenario complessivo si è disvelato così: un finale senza finale, in volo su una mongolfiera.

Strane cose, domani è un racconto coerente, a tratti allucinante.
Montanari ricorda un po’ Robecchi, non solo per l’ambientazione milanese, ma anche per certi soggetti improbabili che girano fra le pagine e per quella vena di disincanto auto commiserativo del suo protagonista.

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Vento e flipper

I primi due romanzi di Haruki, uno il seguito dell’altro.
Ascolta la canzone del vento
è il primo, meravigliosamente assurdo e sconclusionato.
Flipper, 1973
è il secondo, greve e cupo, immaginifico e silenziosamente disperato.

C’è tutta la sua cifra stilistica, anche se in albore, anche se acerba.
Si trova già qui, in nuce e in potenza, ciò che Haruki diventerà.
È quasi commovente scoprire com’era Murakami prima di diventare Murakami.

Scritti e pubblicati quando ero bambina.
Letti da grande, nei pochi giorni luminosi di un gennaio anomalo, che ha il prato invaso da margherite fiorite.

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Feste con gli amici 3

È un appuntamento fisso, ormai.
Loro aspettano me, che dopo averli acquistati appena usciti, aspetto con pazienza il tempo giusto per leggerli.

Malinconico che dà sfogo al bisogno di ridere.
Bordelli che ammanta ogni cosa di malinconia.
Monterossi che, in questo suo sesto, si fa un po’ controparte.

De Silva così istrionico da non deludere mai.
Vichi che ha il tepore del fuoco acceso nel camino.
Robecchi dall’ironia tagliente come lama di spada.

Tre personaggi, tre autori.
Le mie feste con gli amici.

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