Vieni da me

Viene da stupirsi quando in una canzone leggera si scovano delle verità non così banali. A volte si pensa che solo le riflessioni profonde, il pensiero di grandi autori, i componimenti più raffinati possano aiutarci a capire qualcosa di noi.

E invece, più spesso, è la semplicità che ci aiuta a ritrovarci.

Quando le distanze ci informano che siamo fragili, abbiamo bisogno di un abbraccio che scacci le nostre piccole paure. Lo dice Francesco Sarcina, il cantante de Le vibrazioni mentre intona Vieni da me. Lo dicono i personaggi di questo bel video quando alla fine, cantando, scorgono un orizzonte sereno al centro di un’eclissi.

Riportare noi stessi in ciò che leggiamo, vediamo, ascoltiamo è naturale.
Persino consolatorio, se solo ci crediamo, almeno un po’.

I veli trasformano intere identità
ma
è guardando le stelle che m’innamorerò
di tutte le cose più belle che ci son già

ma che fanno paura perché siamo fragili

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Maledetta primavera

Di solito me la prendo con me stessa, ma stavolta non ci riesco, sarebbe ingiusto. Quando abbandono un libro, quando non riesco ad arrivarci in fondo perché mi annoia e trovo la lettura insopportabile, mi rimane addosso una sensazione spiacevole di rinuncia che, spesso, assume i tratti di una piccola sconfitta.

Con Maledetta primavera di Paolo Cammilli la sconfitta, grande, deriva dall’averlo acquistato. Piantarlo con soddisfazione a pagina 180 è stata una vera e propria liberazione. Autoinfliggersi torture non è il compito di un lettore, intestardirsi allo sfinimento in un romanzo scadente e dozzinale non rende onore a tutti i bravi autori cui si dedica tempo importante. Sarà forse un ragionamento estremo, ma sono convinta che se spendo molto bene il mio tempo per Biondillo, Pederiali, Vichi, De Luca, Pariani, Gamberale, De Silva e Niffoi, non posso permettermi di sprecarne con Cammilli perché sottrarrei ore preziose a bravi autori che generano letteratura e non volgari cicalecci da rotocalco scandalistico.

Non sono stata scaltra, avrei dovuto capirlo subito che qualcosa non andava. Mi sono fidata dei giudizi entusiastici che girano sui siti di vendita on line di libri, dove l’esaltazione di questo romanzo faceva pensare ad un classico caso di capolavoro nascosto, un gioiello di nicchia, una perla d’autore edita da una piccola casa editrice. Se solo avessi cercato informazioni sulla casa editrice, avrei scoperto che l’autore di Maledetta primavera è anche proprietario e direttore della casa editrice stessa. Non che sia vietato, ma una lampadina si sarebbe accesa. Se solo, prima di acquistarlo, avessi sfilato la sovracopertina, avrei sospettato l’imbroglio. Sopra c’è una bella immagine, sotto pare un libercolo per teenager. E’ pur vero che l’estetica è soggettiva e può anche ingannare, ma a quel punto l’illuminarsi di una seconda lampadina mi avrebbe impedito l’acquisto.

Il contenuto di Maledetta primavera è oggettivamente illeggibile, scritto male, pieno di errori ortografici, grammaticali e sintattici, intriso di ripetizioni, dalla punteggiatura mancante o errata, con una trama sconclusionata, inconsistente ed ordinaria e la narrazione, di basso livello, è offensiva e scurrile.

Un libro in cui le donne (giovani e vecchie) sono tutte “troie”, “mignotte”, “battone”, “zoccole” e gli uomini sono tutti tori da monta è un libro che offende, non solo il buongusto, ma soprattutto l’intelligenza di chi legge.

Non scrivo di questo libro per denigrare, non ce l’ho con Cammilli, che nemmeno conosco e a cui auguro ogni bene. Ce l’ho con chi paragona Cammilli ad Ammaniti perché non sa quel che dice. E lo scrivo con rispetto, questa è solo la mia opinione.

Maledetta primavera

Vedi anche:

http://michelaposer.wordpress.com/2014/03/07/maledetta-primavera-di-paolo-cammilli-5-euro-buttati-via/

 

 

In Kimi

In Kimi credo.

In Kimi vedo l’equilibrio.
Una strana forma di bilanciamento che lo rende diverso dagli altri professionisti del circus.

Pilota anomalo Raikkonen, capace di vivere anche senza la Formula 1, talmente dotato di talento e velocità da regalarci un mondiale inaspettato nel 2007, poi fare due annate insoddisfacenti e, col rischio di vedere tramontare una carriera, prendersi una pausa per fare altro. Da quando è tornato, nel 2012, è sempre lui il mio punto di riferimento in pista.

Pilota affascinante nel suo essere glaciale. Uomo che ama il divertimento e la vita reale, finlandese dalle parole rare, avaro di sorrisi, contenuto nelle reazioni, sconosciuto nella sua emotività.

Oggi il terzo gradino del podio di Montecarlo avrebbe dovuto essere suo, di forza per il sorpasso straordinario in partenza, di diritto per la potenza della sua guida, di merito per la qualità dei suoi giri veloci. E invece è arrivata una Marussia qualunque a tamponarlo, da doppiata, in regime di safety. E’ capitato un Magnussen di troppo in collisione sulla strada della rimonta.

Solo questo mi va di raccontare del Gran Premio di oggi. Non della doppietta monegasca di Rosberg, non della pagliuzza di graining nell’occhio sinistro di Hamilton, non della prestazione depotenziata di Alonso.

Solo di Kimi mi va di raccontare.
Perché in Kimi ho sempre creduto.

KIMI

Storia di Leo in bicicletta

Gira in bicicletta come un ossesso fingendo di dover consegnare documenti importanti da un bar all’altro della città. Entra negli edifici pubblici immaginandosi fattorino, nei negozi per chiedere ai commercianti come vanno gli affari, controlla che fra i banchi del mercato non ci siano ladruncoli in agguato. Ha una parola per tutti, un saluto per chi non conosce e un cenno d’intesa confidenziale per chi gli è amico. Alle signore riserva un inchino riverente, ai bambini un ciao sguaiato, agli uomini di qualsiasi età un improbabile saluto militare. Fra le mani stringe cartelline anonime, finti pacchi postali, ogni tanto un fiore.

Si chiama Leo ed ha una bici sgangherata e cigolante che pare disfarsi sotto il gravame del suo sovrappeso. “Non la aggiusterò mai” – dice furbetto – “perché così malmessa è talmente brutta che a nessuno viene voglia di rubarmela”. E nel dirlo fa l’occhiolino, sorridendo, col suo bel faccione rubizzo capace di emanare luce.

E’ un caciarone Leo, un personaggio allegro che si sente arrivare da lontano; il suo vociare ciarliero è un sottofondo familiare nelle vie della città. E’ sempre in movimento, preso da una frenesia positiva, spinto da una dinamicità senza scopo che lo guida quotidianamente nel suo intricato percorso di vita.

Oggi, per la prima volta da quando lo conosco, l’ho visto fermarsi, appoggiare la bicicletta contro un cancello e sedersi su un marciapiede. L’ho visto triste, con lo sguardo fisso sui piedi, le braccia abbandonate lungo i fianchi, le gote rubiconde lievemente impallidite.
Forse si è stancato Leo. Forse non ce la fa più a mettere in scena ogni giorno la stessa commedia, forse sta meditando una vita diversa perché si rende conto che il mondo vero non è come lo vede lui.

L’ho oltrepassato, camminando lenta, cercando di non incrociare quegli occhi infelici che non gli riconoscevo. Avrei voluto dirgli che non deve preoccuparsi, che capita a tutti, ogni tanto, di essere stanchi di come si è, che i giorni foschi in cui non sopportiamo nemmeno noi stessi sono giorni che fanno male, è vero, ma così come sono arrivati, poi svaniscono, senza lasciare troppi segni.

Glielo dirò domani, se lo incontrerò.

Leo

Tre volte all’alba per Mr Gwyn

Gwyn

Quando non si vede un amico per lungo tempo una certa nostalgia la si sente. Se questo amico, poi, ci ha deluso, la nostalgia è amara; si è combattuti fra il desiderio di cercarlo e quello di lasciare perdere.

Anche con gli scrittori, a volte, funziona così. A me è capitato con Alessandro Baricco. Ho smesso di cercarlo tanti libri fa perché nei suoi romanzi degli anni duemila non trovavo più l’originalità filologica e l’audacia narrativa di cui sono intrisi Castelli di rabbia e Oceano mare, le sue prime, inimitabili, opere d’arte.

Pensavo, Baricco, di averlo abbandonato definitivamente finché, qualche settimana fa, per una serie di coincidenze curiose, mi sono ritrovata fra le mani Mr Gwyn e mi sono chiesta: “Che sia giunto il momento di mettere da parte l’amarezza e di affrontare la nostalgia?”. Così mi sono messa a sfogliare Gwyn, un po’ scettica, un po’ distratta, fino al momento in cui ho posato gli occhi su questa frase:

Mentre vedeva l’inchiostro blu rimanere sulla carta ad annotare l’orrore di un nome da ospedale e la prosa di un arido indirizzo, si ricordò di come qualsiasi incantesimo sia fragile oltre ogni dire, e velocissima la vita nel suo rapinare.

L’ho ritrovato in quelle parole il vecchio amico che avevo dato per perso, ho riscoperto in poche righe l’atmosfera lirica dei vocaboli accostati con garbo inconsueto. Perché Baricco per me è questo, un temerario del lessico, abile nell’utilizzare un linguaggio non convenzionale, capace di descrivere con voli arditi trame peculiari e fantasiose.

Mr Gwyn è un personaggio enigmatico eppur limpido, una personalità anomala e accattivante, capace di farsi amare anche dal lettore più sfiduciato. Pur non comparendo, c’è lui anche dietro la trama di Tre volte all’alba che di Mister Gwyn non è il seguito, ma il completamento ideale.

Due libri legati ma non sequenziali, due libri autonomi ma indissolubili.
Due libri perfetti per ritrovare un amico smarrito, tanti libri fa.

 

 

 

Solo un pescatore *

“Dov’eri ieri sera?”
“In giro.”
“In giro dove? Non ti abbiamo visto, io e mamma abbiamo percorso il lungomare avanti e indietro tante volte e non ti abbiamo mai incontrato.”
“Non c’è solo il lungomare in questo buco di paese.”
“E’ vero, ma di sera sono tutti lì, tu invece sembra che vuoi nasconderti. Dov’eri finito?”
“In giro. Lasciami in pace pà.” 

Mio padre lo sa dov’ero, mica è scemo, voei fâ vedde ö neigro pe gianco. Non lo inganno papà, forse mamma si, ma papà no. Lui lo sa che ero al molo.

Ieri mattina ho visto il segnale sulla prima pagina della Nazione, nell’inserto di Spezia. Erano due settimane che non si facevano vivi, stavo diventando impaziente. Tutte le mattine al bar a bermi un cappuccino e a fingere interesse per le notizie dei giornali, quando l’unica cosa che mi preme veramente è trovare quel cerchiolino nero intorno alla data del quotidiano. Se lo trovo, vuol dire che l’appuntamento è fissato, che uno dei due è passato e ha lasciato il segnale. Non so mai se sia Luigi o Gilberto, non so chi troverò nell’anfratto fra le rocce. A volte uno solo, a volte entrambi. Sono loro che guidano il gioco, io devo solo farmi trovare lì, nel solito posto, quando la notte è scesa e arriva il tempo per noi.

E’ difficile da raggiungere il nostro nascondiglio, una cavità fra le pietre, un anfratto celato nel cuore del paese. Non è visibile da chi transita sul lungomare perché la roccia prima sporge e poi rientra, creando un pertugio ben nascosto. Gli scogli alti e frastagliati lo proteggono dai lati e le barriere del molo ne rendono difficoltoso l’accesso. Solo un pescatore in mezzo al mare ne può vedere l’interno. Devo stare attento a come mi muovo, appoggiarmi alla roccia con la mano sinistra; la destra mi serve per tenere acceso il display del telefono che illumina flebilmente le onde che si infrangono a pochi centimetri dai miei piedi. Quando ho trovato l’equilibrio e mi sento sicuro, metto il telefono in tasca e faccio un balzo nel buio, un piccolo salto che mi porta aldilà del molo, dentro la mia tana. La chiamo così, la mia tana, il luogo che sento casa mia, dove posso essere interamente io, senza vergognarmene.

Ieri sera c’era solo Gilberto e per fortuna non aveva fretta. La moglie e i figli sono andati ad Albenga con i suoceri, sarà solo tutta la settimana, così potremo vederci spesso. E’ una notizia che mi rassicura perché le volte in cui facciamo l’amore e lui deve scappare, poi mi piomba addosso una tristezza amara, un senso di sconfitta e di paura che mi rimane addosso per molti giorni. Quando invece resta con me ad ascoltare le onde, io sono in pace e sento di volergli bene. Come ieri sera.

Con Luigi è diverso. Luigi è un rude, un uomo che cerca altri uomini solo per soddisfare il piacere carnale. Non possiede la tenerezza, non sa cosa sia una carezza fatta con amore, evita persino di guardarmi negli occhi. Eppure ho bisogno anche di lui, del suo modo quasi violento di afferrarmi e della sua incapacità di avere riguardo per me.

Oggi sono felice perché ieri sera sono stato solo a lungo con Gilberto. Avevo urgenza del suo corpo e smania del suo calore. Si è seduto dietro di me, mi ha circondato con le braccia robuste e mi ha indicato un puntino in fondo al mare. Mi ha detto:
“La vedi quella barca laggiù? Io la vedo quasi tutte le sere che ci incontriamo. Solo quel pescatore conosce il nostro rifugio, solo lui sa che abbiamo una casa qui, fra gli scogli. Stai tranquillo, me amû, non ti devi preoccupare perché un bravo pescatore, i segreti, li consegna tutti al mare.”

*questo racconto ha partecipato al gioco di scrittura su:

http://www.mimettoingioco.wordpress.com

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Ma come fai a stare sveglia?

La domanda che mi sento rivolgere più spesso quando qualcuno impara della mia passione per la Formula 1 è: “Ma come fai a stare sveglia?”

E’ vero, è iniziato il girone dei gran premi europei, quelli che vanno in onda la domenica dopo pranzo, quando la fase digestiva induce all’appisolamento, il sangue si concentra nello stomaco, fa abbassare i livelli di guardia e, piazzandosi sul divano, ci si addormenterebbe anche davanti ad un action movie con Christian Bale.

Lo confesso, anche a me ogni tanto capita di abbassare le palpebre, ma le riapro dopo pochi istanti perché quel rombo ronzante in sottofondo richiama il mio naturale istinto a immedesimarmi nel pilota dentro l’abitacolo, nel meccanico dentro al box, nell’ingegnere che interpreta i dati della telemetria.

Non sono una tecnica, poco ne capisco di elementi aerodinamici, profili estrattori, flap anteriori o power unit. Vivo ogni gran premio dal punto di vista umano, sento l’atmosfera rilassata delle prove libere del mattino, le chiacchiere sdrammatizzanti della squadra che pranza nel paddock e i minuti di isolamento che i piloti vivono dentro al motor home. Assorbo la tensione che cresce quando le auto si posizionano sulla griglia di partenza ed osservo, curiosa, il magnifico rituale della vestizione ignifuga del pilota. Mi identifico nel meccanico che apre l’ombrello per proteggere la vettura dal sole o dalla pioggia, mi viene da correre quando il team deve lasciare la griglia di partenza e mi concentro quando il pilota rimane da solo dentro l’abitacolo.

E ogni volta, anche se sono passate decine di anni ed ho visto centinaia di gran premi, sento tutte quelle emozioni elevarsi di grado ed intensità, rimango in attesa col fiato sospeso, ascolto il frastuono dei motori che cresce fino a diventare boato nell’istante in cui i piloti possono premere l’acceleratore e spararsi in pista ad una velocità al limite dell’umano.

E’ lo stupore per l’incoscienza che mi fa stare sveglia anche durante il gran premio più noioso della stagione, quello in cui Hamilton parte e rimane primo, Rosberg gli sta dietro e Rikkonen viene doppiato dalle Mercedes all’ultimo giro. Magari mi concentro sulle retrovie, sulla battaglia per il sedicesimo posto fra Adrian Sutil ed Esteban Gutierrez, ma di certo non allento l’attenzione perché per sfrecciare a 300 km all’ora rinchiusi in strette scocche di fibra di carbonio e schiume polimeriche, serve una sconsiderata imprudenza che ammiro, ogni volta, incredula.

C’è qualcosa di non umano in questi esseri umani.
A quella velocità anche un respiro fatto male può farti perdere quel decimo di millesimo che ti costerà punti importanti in classifica o, peggio, può farti uscire di strada e comprometterti, in qualche modo, la vita.

Allora penso a quei ventidue piloti che per quasi due ore si trasformano in folli meccanismi ad altissima precisione e, a chi mi chiede come faccio a stare sveglia, rispondo: “Di fronte a tanta pazzia non posso di certo dormire”.

Cavallino

Storia di Grazia che si volta indietro

La chiamerò Grazia perché ha un viso armonioso e pudico, dai lineamenti appena accennati, in cui non si vedono spigoli, solo curve delicate. Proprio come una Grazia del Canova scolpita nel marmo più candido: occhi modellati, guance tondeggianti, labbra cedevoli.

E’ alta e ben fatta Grazia e mentre attraversa un lungo viale alberato, attrae sguardi incantati. Cammina velocemente, quasi corre, però non sembra scappare. Anzi, si volta indietro in continuazione, come se sperasse di essere inseguita. O forse è lei che rincorre qualcuno, ma al contrario.

E’ difficoltosa la sua traversata del viale perché deve occuparsi di alcuni dettagli. Del vestito intrecciato sul ventre, prima di tutto, perché la leggera brezza che spira fra i tigli di città le solleva la gonna, aprendola sul davanti. Con una mano deve tenerla ferma, appiccicarla al corpo, non vuole mostrare le sue lunghe gambe color del latte. Con l’altra mano, poi, è costretta a scostare i capelli dal viso perché voltandosi in continuazione se li ritrova sugli occhi a formare piccole trame di ragnatela.

E’ agitata Grazia e al contempo affranta, con un’espressione d’attesa e di timore che le addolorano lo sguardo. Ha paura di essere delusa, di non trovare quel che cerca alla fine di questo lungo viale. Mette un po’ d’angoscia vederla camminare così, voltata all’indietro, con le mani impegnate, il respiro affannoso, l’inquietudine sottile che viaggia con lei.

Viene da chiedersi cosa accadrà quando i suoi ultimi passi calcheranno la via, se apparirà qualcuno alla sue spalle o se la vedrò andarsene da sola, rattristata nel disinganno. Mentre i metri di pavet sotto i suoi piedi stanno per terminare, Grazia si volta dalla mia parte e i suoi occhi incrociano i miei, immobili su di lei. Si sta chiedendo perché la sto fissando, ne sono certa, così sorrido, rassicurante, al suo sguardo preoccupato. E’ nell’istante del sorriso che la vedo sbattere contro un uomo, sbucato all’improvviso da chissà dove, chissà come. Un omuncolo, piccolo e solido, così scuro e adombrato da far temere il peggio.

E invece Grazia lo guarda e si illumina, ferma la sua corsa e tutto il mondo cambia; in un attimo si ritrova libera dalla paura, dalla delusione, la vedo diventare impalpabile e danzante come il suo vestito leggero.

A stare seduti su una panchina di città, si osserva la vita. Guardo in su, verso i tigli non ancora fioriti e penso che mancano solo pochi giorni e poi l’aria, finalmente, profumerà di fiori.

Le tre Grazie

 

La collina del vento

La collina del vento

Lodi smodate e critiche severe. Quando un libro divide è sempre l’autore ad avere ragione, è riuscito a far parlare tanto del proprio romanzo: obiettivo centrato.
La collina del vento
, che piaccia o no, è un libro vincente, come tutti i racconti che separano i lettori in modo così netto. Si è pure aggiudicato un Campiello, non può essere un dettaglio.

Carmine Abate, scrittore calabrese pluripremiato e pluritradotto, racconta una storia avvincente di resistenza silenziosa e di solida onorabilità, una discendenza di legami che attraversa quattro generazioni e due guerre mondiali.

C’è chi dice che La collina del vento sia un’imitazione mal riuscita di un genere di romanzo (la saga famigliare) fin troppo inflazionato, c’è chi ne ha amato l’impianto a metà fra verità storica e finzione romanzata, chi ha trovato banali la trama e i personaggi, chi lo ha paragonato alla Casa degli spiriti della Allende tanto gli è parso profondo, chi non l’ha proprio digerito e chi non riusciva a staccarsene.

Io vorrei inaugurare una nuova categoria di lettori, per schierarmi dalla parte di chi, mentre lo leggeva, meditava un viaggio in Calabria. Non una semplice vacanza, ma un vero e proprio viaggio itinerante fra gli scavi archeologici delle pendici ioniche, fra i mercati saraceni, i palazzi, le torri, i castelli. Un viaggio in compagnia del vento di Punta Alice che sibila nelle orecchie e scompiglia i capelli, degli odori ubriacanti delle piante e dei fiori delle colline calabre, di un piatto di tagliatelle al sugo di capretto annaffiate da un bicchiere di Cirò.

Vorrei vedere con i miei occhi i fiori di Sulla che colorano di rosso porpora le pendici del Rossarco, la collina protagonista del romanzo, e vorrei toccare con le mie mani la nuda terra che è il fulcro, il fuoco, il cuore di questo bel libro.

Mica poco, direi.

La collina del vento

Vent’anni senza Ayrton

Mi dicono che sia una specie di cimelio, uno di quei pezzi rari il cui valore è destinato a crescere nel tempo. Quanto valga non m’importa, lo conservo fra le cose preziose a cui attribuisco il valore inestimabile del ricordo.

Se fossi il direttore di una rivista sportiva e dovessi comporre oggi la copertina che annuncia la morte di Ayrton Senna, chiamerei il grafico e gli direi di farla proprio così, come quella di vent’anni fa, con il fondo nero del lutto, la scritta scarlatta bordata di bianco, lo shock accennato con quel tratto sbieco di giallo.
La farei identica, anche se oggi, con i mezzi grafici a disposizione, potrei fare qualcosa di più moderno. Perché anche a distanza di vent’anni sono quelli i colori che di Ayrton raccontano tutto.

Nel nero c’è l’assenza inaccettabile che ha lasciato sui circuiti e nei box di tutto il mondo, quel vuoto pesante di carisma e magnetismo che nessuno è più riuscito a colmare.
Nel rosso c’è il suo sangue, sceso copioso sull’asfalto del Tamburello fra i detriti della Williams incriminata, le cannule e le pinze dei soccorritori, sotto il sole di una Imola ipnotizzata dal rumore delle pale dell’elicottero che ha fatto volare Ayrton nel cielo, per sempre.
In quel bianco discreto c’è la luce che Ayrton emanava silenziosamente, dall’alto della sua forza interiore che sapeva comunicare senza bisogno di parole, anche a chi non lo conosceva, anche a chi di Formula 1 non si interessava.
Nel giallo c’è l’energia carioca, l’abbraccio di un popolo che con Ayrton ha perso un simbolo, ha consacrato un idolo, che senza di lui ha smarrito persino la speranza.

Vent’anni senza Ayrton fanno male, inutile fingere che non sia così.

https://righeorizzontali.wordpress.com/2013/05/01/1-maggio-1994/

E' morto Senna