Di gambe e di ali

Quando li vede saltellare sull’asfalto dei marciapiedi di città, porta pazienza.
Quando li vede allenarsi nelle piste d’atletica, beh, fa più fatica a resistere.
Quando li vede galoppare per le strade di campagna, è lì che nasce l’invidia.

Il vero tormento è quando li vede correre in riva al mare.

Non li sopporta più i runner che possono correre. Soprattutto quelli che, sfrontatamente, battono l’arenile sotto i suoi occhi. Finge di non vederli, si impone di non seguire il ritmo dei loro piedi, di non immaginare la fatica e il sudore.

Perché lei è una runner che non può più correre, una ex runner che non riesce a darsi pace. Le scarpe pronte per essere indossate, il contapassi conservato fra le cose preziose, la t-shirt da corsa preferita che le capita sempre fra le mani, maledetta.

Solo chi ha vissuto la corsa e la sua privazione sa cosa si prova.
Sa che le gambe diventano ali quando si corre.
Sa che le ali rendono liberi.

Di gambe e di ali, lei lo sa.

https://righeorizzontali.wordpress.com/2013/04/25/storia-di-luciano-runner-di-parole/

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La ragazza dello Sputnik

La ragazza dello Sputnik

Che li abbia scritti negli anni ’90, nei primi anni 2000 o qualche mese fa, poco cambia. E’ sempre fedele a se stesso Murakami, immobile e straordinario. Metodico e rigoroso nella sua impostazione di vita, me lo immagino pasticcere, radunare gli ingredienti, attento a non dimenticartene nemmeno uno, a pesare gli indizi e le tracce con precisione perché in pasticceria, come nei racconti sognanti, sbagliare i dosaggi non garantisce un buon risultato.

Avendone letti tanti di romanzi di Haruki, ormai conosco bene la lista completa dei suoi elementi caratterizzanti. Ed è quasi un esercizio, o forse un gioco, cercarli fra le pagine, elencando nella mente, man mano che la narrazione prosegue, quelli, indispensabili, che mancano. Di solito accade che, poche righe prima che il libro finisca, li ritrovo quasi tutti: ben amalgamati, mirabilmente assortiti, come solo Murakami sa fare.

E’ classica la combinazione di fattori ne La ragazza dello Spuntink: la luna con il gatto, il protagonista senza nome con la ragazza sognante, il mestiere di scrittore con la passione per la musica, una ruota panoramica svizzera con un’isola greca non identificabile, i nomi dolci di Myu e Sumire, la porta del mondo parallelo che inghiotte sogni e persone senza dare spiegazioni.

L’ho già scritto e mi ripeto: leggere Haruki è rassicurante. Ogni volta è come tornare a casa da un viaggio concitato dentro migliaia di pagine di altri autori, dentro decine di altre storie, dentro una pletora di immagini appartenenti ad altre vite. Con un romanzo di Murakami fra le mani, si ritorna alle cose conosciute, si riassettano gli equilibri, si riesce persino ad immaginarsi diversi da come si è.

Proprio quel che ci vuole quando tutto, intorno, cambia.

 

Nel tempio di Spa

Mentre aspetto che inizi il Gran premio, nel fare ordine sulla scrivania, riaffiorano parole curiose. Proprio nel giorno di Spa mi trovo fra le mani un quotidiano risalente a qualche mese fa: in primo piano il viso sorridente di Fernando Alonso con a fianco la scritta: “Vogliamo mettere fine al dominio delle Red Bull”.
Bizzarra la coincidenza di aver ritrovato questa pagina profetica proprio oggi, che la Red Bull di Ricciardo ha frenato il dominio delle Mercedes, conquistando meritatamente il Gran premio del Belgio.

Ho pensato a come cambiano le prospettive e in quanto poco tempo. Così nello sport, come nella vita.

Se dallo schermo televisivo si potessero apprezzare meglio le pendenze del circuito di Spa, se in una sorta di ripresa sezionale si potessero cogliere le salite e le discese e i curvoni scoscesi a velocità folli, si capirebbe quanto è spalancato, ostico e aggressivo questo circuito, da sempre considerato il tempio della F1, oggi ribattezzato l’università dei piloti.

Che nella foresta di Spa non piova è quasi impossibile, ma oggi, nel giorno delle regole sovvertite e delle gare dentro le gare, la luce filtrata dalle nubi innocue della Vallonia ha illuminato alcune, pesanti, verità.
La rivalità pericolosa fra i due piloti Mercedes che ha tolto a Nico Rosberg la vittoria e a Lewis Hamilton, forse, la tuta argentata; il quasi minuto di distacco che Daniel Ricciardo ha rifilato al compagno di scuderia quattro volte campione del mondo Sebastian Vettel; la fatica inutile di Kimi e Fernando che in Bottas e Magnussen hanno trovato rivali insuperabili.

Non c’è amarezza in queste verità, solo disincantata rassegnazione.
E Monza si avvicina.

Dominio

Questo linfonodo

“Cosa ci dice questo linfonodo?”

“……” la replica di chi è dall’altro capo del telefono non è udibile.

“Non divagare Marco” esclama irritata “questo linfonodo ci dice chiaramente che ha un cancro, un cancro schifoso! Fatemi trovare la cartella aggiornata e completa, domani torno. Voglio formulare io la diagnosi, voglio parlare io con la paziente, la conosco da anni, devo farlo io, devo farlo per lei.”

Tronca la conversazione senza nemmeno salutare, chiude gli occhi e, dopo un lungo respiro, sottovoce aggiunge: “e per me”.

Avanza su una lunga passerella ondeggiante e nel punto di snodo fra un ponticello e un altro, si china, allungando il braccio destro verso il mare. Infila, sicura, la mano nuda in un piccolo anfratto fra le rocce giallastre ed estrae un lungo pezzo di carta ripiegato. Lo apre, lo legge, lo posa sul petto premendolo forte.

Mestamente annuisce e se ne va.

Forse pensava di essere sola su quella passerella di legno e metallo che collega il porticciolo alla spiaggia.
Forse pensava che nessuno la ascoltasse, che nessuno notasse la sua giovane età, la sua bellezza spudorata, l’eleganza innata delle sue movenze.
O, forse, non le importava affatto di essere udita e osservata.

Io, comunque, ero lì, a pochi passi, intenta a fotografare sassi in riva al mare. Ho udito, ho osservato e ho subito capito cosa non mi avrebbe più lasciato di quella scena.
Non il pensiero della paziente che riceverà la notizia nefasta, non la curiosità di leggere le parole scritte sul biglietto nascosto nella roccia, non la forza, la determinazione ed il coraggio di un giovane medico.
Piuttosto la rabbia, la collera ringhiosa di una donna impotente di fronte al male.

passerella

Il tribunale delle anime

Il tribunale delle anime

Metto da parte:
La trama densa e ingegnosa.
Gli intrecci plurimi che si innestano nell’alternarsi degli spazi temporali e che si influenzano a vicenda negli spessi strati della narrazione.
La scrittura fluida, non ricercata, priva di ogni superfetazione.
I dialoghi veloci, essenziali, diretti.
Le descrizioni storico artistiche, comprensibili ai più, di una Roma sacra e poco conosciuta.
Il contrapporsi di fede e scienza, di bene e male, di vendetta e giustizia.

Metto da parte, insomma, tutti gli elementi narrativi che fanno de Il tribunale delle anime un ottimo thriller, un best seller italianissimo tradotto un po’ ovunque il giro per il mondo.

Accantono persino il piacere di una lettura così coinvolgente per isolare un elemento scheletrico, ma nodale, che Donato Carrisi mi offre fra le pagine del suo romanzo: l’osservazione. La capacità di cogliere significati nascosti attraverso lo sguardo attento sulla realtà. La vista come senso cardinale che permette, a taluni, di andare oltre l’evidenza, oltre la lettura oggettiva dei fatti, oltre ciò che vedono gli altri. L’uso degli occhi per ricercare le anomalie di scenario che rivelino le verità mascherate. L’utilizzo della percezione visiva per immaginare cosa si nasconde dietro ciò che appare tangibile. Guardare per capire, osservare per immaginare. E’ ciò che deve fare chi analizza la scena di un crimine, è ciò che naturalmente fa chi si esprime attraverso l’arte.

Carrisi mi ha portata fin qui e gliene sono grata.

Io vedo le cose attraverso la mia macchina fotografica. Mi affido ai particolari perché mi svelino come sono andati i fatti. Ma per i penitenzieri esiste qualcosa al di là di ciò che abbiamo davanti. Qualcosa di altrettanto reale, ma che una macchina fotografica non può percepire. Perciò devo imparare che a volte bisogna consegnarsi al mistero. E accettare che non ci è concesso di capire ogni cosa.

Il tribunale delle anime

Tre civette a ferragosto

Si aggirano per il quartiere, nel vuoto ferragostano, turbando la sacra quiete della canicola.

Di piccoli fiori vestite, mai uguali ma sempre in tinta, camminano, al centro della carreggiata, a qualche metro di distanza l’una dall’altra. La più giovane davanti, la più anziana dietro, in fila indiana. Madre e figlia, zia e nipote, cugine o sorelle, non si sa.

Corpi ingombranti e faticosi da portare, parole continue di esortazione o di rimprovero, soste frequenti, per prendere fiato. Fra l’una e l’altra un cane di piccola taglia, beneficiario delle loro infinite premure e dei rimbrotti severi, destinatario delle loro voci appuntite che riecheggiano fastidiose nel paese deserto.

Un terzetto curioso che non si sa da dove provenga, che non si capisce perché se ne stia in mezzo alla strada anche oggi, che è festa del nulla, è riposo.

Attirata dallo stridore vocale, che gli altri giorni, nel frastuono della vita che scorre, non avevo notato, osservo il terzetto dalla tapparella di poco scostata e mi ritorna in mente la filastrocca che mia nonna mi cantava da piccola:

Ambarabà ciccì coccò
Tre civette sul comò

Una cantilena circolare, ripetitiva, priva di significato.
Come il loro vagare.
A ferragosto, mi si perdoni, ci può anche stare.

 

ferragosto

 

La piramide di fango

La piramide di fango

E poi, finalmente, arriva una bella storia italiana che pacifica le situazioni storte, le letture dubbiose, il cattivo tempo e persino le inevitabili ambivalenze insite nei cambiamenti. Il potere di una buona lettura, a volte, è sorprendente, soprattutto se non si tratta di un racconto qualunque, ma dell’ennesima, agognata storia di Salvo Montalbano.

Recensire Camilleri non è impresa per me. Di fronte a cotanto, mi intimidisco e mi faccio piccola.
Anche perché mi chiedo: cosa può esserci ancora da dire su questo personaggio di cui sappiamo tutto? Montalbano è l’ospite delle nostre case, quello di cui conosciamo il desco quotidiano, i pensieri più intimi, le infatuazioni, le insicurezze, persino i sogni. E’ il personaggio nella cui casa siamo a nostra volta entrati, a bere whisky sulla terrazza di Marinella, fra le lenzuola aggrovigliate del suo letto fedifrago, ad aspettare che sia pronta una cicaronata di caffè nella cucina di maioliche.

“Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese..”. Mi viene da citare, a sproposito, l’Ariosto, che è poeta di casa mia, in un’assonanza illogica e immaginaria di eroi presenti e di modelli dimenticati. Chissà perché.

E quello che rimane, alla fine di ogni storia, è il linguaggio siculo che permea, per un po’, il nostro. Ci si ritrova a parlare siciliano, anche se si proviene dal profondo nord.
Fra una sciarriatina, una marcia narrè, una rottura di cabasisi e una pasta ‘ncasciata, si rimane in attesa che arrivi il prossimo racconto e si coltiva il recondito e irrealizzabile desiderio che l’ultima e definitiva storia di Salvo, quella chiusa a chiave nella cassaforte di Sellerio, non arrivi mai.

La piramide di fango

Un senso (m e g r e l f)

Che poi la vita, quando si è fatti così, quando la testa tende a raziocinare in continuazione, ti sottopone sequele infinite di domande.
Te le ritrovi nel bicchiere, fra i calzini, sul cuscino, ovunque.
Interrogativi perpetui e persistenti che oscurano la fantasia, che logorano la libertà.

Bisogna saperli fermare, bisogna fermarsi.

Marco, Elena, Gabriele, Roberta, Elisa, Lisa, Ferro.
Intorno a una tavola apparecchiata, ascolto le vostre voci e canto Vasco.

Un senso, per noi.

Senti che bel vento
sai che cosa penso?
domani un altro giorno
arriverà

Salvami **

La decisione di spegnersi nel mare l’aveva presa senza esitazioni.
Voleva che fossero le onde a marcare la fine, perché l’acqua era sempre stata la sua forza e, insieme, la sua debolezza.

Il mare come grande contraddizione, che è forza e coraggio, luce scintillante puntinata sulle onde; il mare che è paura, gravità e profondità, buio cavernoso in cui terminano gli abissi.

Le piaceva sedersi sulla battigia ad ascoltare le acque calme e a guardare le maree, provava sollievo nel posare lo sguardo infinito sull’orizzonte increspato. Lo faceva nelle ore meno calde, di levante e di ponente, coi magoni da mandare giù, traghettando gli anni opachi dei suoi lunghi stati depressivi, ormai incurabili.

Era un giorno come tanti, con la spiaggia ancora affollata, nonostante l’ora del tramonto. Pochi i turisti, molti gli abitanti del luogo che lei conosceva bene, perché su quella spiaggia c’era nata, ne faceva parte. Coltivava da tempo l’idea di salvarsi da sola, di guarire il proprio dolore dissennato placando, per sempre, corpo e pensieri. Decenni di medici e medicine non erano riusciti a salvarla dal nero tormento, si sarebbe salvata da sola.

Aveva iniziato a camminare lentamente verso il mare, sperando di passare inosservata, perché in sessant’anni nessuno mai l’aveva vista entrare in acqua; che non sapesse nuotare era risaputo. Avanzava dolcemente, con le braccia rilassate lungo i fianchi, un candido sorriso sulle labbra asciutte e nelle orecchie la propria voce, incerta e logorata, che le ripeteva: “salvami, salvami, salvami”, una litania di morte, l’unico rimedio possibile.

Voleva che fosse la mano sinistra, quella del cuore, ad essere sommersa per ultima dall’acqua; con un cenno oscillante avrebbe salutato tutti: la spiaggia, gli amici, le onde.

Ma le voci seguono voci e le mani cercano mani. Una presa sicura, un rullo di salvataggio gettato in mare, fiati di uomini che gridano il suo nome. Un ritorno alla vita che non aveva calcolato. Forse perché non aveva considerato che il dolore non si annulla con una decisione, che non lo si può aggirare con una scorciatoia.
Va sconfitto ad armi pari, guardandolo negli occhi.

(** lato b)

Salvataggio2

Salvami *

“Salvami”

E’ poco più di un’eco, una voce barcollante che giunge da lontano.

L’ha sentita nel sonno, o forse no. Si chiede se sia un’innegabile concretezza o solo incosciente immaginazione. Capovolge il cuscino, vuole sentire sul viso la freschezza del cotone pettinato, rinfrescare le guance, rischiarare i pensieri prima di svegliarsi definitivamente dal breve riposo del pomeriggio. Apre gli occhi per un istante e subito li richiude, perché l’eco si fa sentire di nuovo, a più riprese.

Quel “salvami”, sussurrato e instabile, gli risuona nella mente in un modo che già conosce. Gli viene il dubbio che possa essere un ricordo, un momento del passato che riemerge, difficile da collocare nella geografia dei suoi giorni. Prova a concentrarsi, cerca nel passato, scandaglia le sensazioni, il suo personale mappamondo di relazioni e di situazioni. Vuole trovare un volto, un tempo, un luogo per quel sussurro.

Fa caldo, dalla finestra aperta entra l’umidità salmastra che evapora dalle onde. A tratti, rapide folate di brezza agostana muovono il leggero tendaggio e invadono la stanza da letto. I pensieri, di conseguenza, si inumidiscono e si asciugano in successione e lui non riesce a controllarli.

Si alza.

Sul davanzale c’è abbastanza posto per poggiare i gomiti, mettersi comodo e osservare, da una posizione privilegiata, la piccola spiaggia isolana. Gli piace farlo ogni giorno, ondeggiando sulle sue gambe lunghe, sotto il sole delle tre. Pochi i turisti, molti gli abitanti del luogo che lui conosce da trent’anni, cioè da quando, poco più che bambino, i suoi genitori comprarono la casa bianca e azzurra incastonata nella roccia. La casa che ora è sua.

Mentre pensa a quegli anni di gioventù, mentre ricorda se stesso ragazzino, lo vede lì, sotto i suoi occhi, il rullo di salvataggio per i bagnanti imprudenti. Quasi un cimelio, arrugginito e scrostato, vessillo storico di quella baia. Lo osserva a lungo e capisce. Lo fissa intensamente e ricorda. Niente di nitido, nessun dettaglio, non riemerge la trama. Solo qualche fotogramma sconnesso, di una mano che esce dall’acqua, di una donna che rischia di annegare, di lui e di suo padre che si gettano fra le onde e la salvano dal mare. Dello stupore, realizzato solo in seguito, perché la parola gridata non era “Aiuto”.

E perché non era un grido, ma un sussurro: “Salvami”.

(* lato a)

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