Storia di guerra e di terra che trema

A Novi di Modena una domenica mattina.
Scendo dall’auto nella piazza semi deserta e mi guardo intorno, allibita e incredula. Crateri desolati al posto dei palazzi, edifici storici puntellati, case e chiese messe in sicurezza da ponteggi fitti come trappole. Osservo a lungo un paese inagibile, commovente nella sua dignità. E’ passato un anno e mezzo dal terremoto e il silenzio angosciante delle case crollate si fa sentire come fosse un boato.

Mi avvicina un signore molto anziano, osserva che sono una forestiera perché non mi ha mai vista in giro per il paese. Gli rispondo che si, non sono di Novi, ma abito a pochi chilometri. Mi dice venga con me, le faccio vedere la mia casa. Mi conduce in una laterale della piazza e con una mano indica verso il cielo. C’è un balcone imbragato da tubi di ferro scuri come la pece i cui cardini cromati e luccicanti ne contrastano la severità.

Quello è il mio balcone, quella è la mia casa.
Ho avuto una vita lunga e tribolata, ho fatto la guerra, nel ’43 sono salito su una nave che mi ha portato in Africa e sono rimasto laggiù per cinque interminabili anni.
Ho sofferto, combattuto e ricostruito. Ho figli e nipoti.
Quella è la mia casa e non ci tornerò mai più.

Si chiama Gino, ha quasi novant’anni e mi ha commossa nel profondo.

Novi1

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Il corpo umano

Lo vidi per la prima volta nella vetrina di una libreria di Firenze diversi mesi fa. D’acchito pensai: “Non lo leggerò”. Trovavo la copertina respingente, foriera di sofferenze; lo sguardo di lui così inconsapevole, quasi sfrontato, quello di lei così affranto e rassegnato.

Poi, qualche settimana fa, la mia amica Anna mi ha detto: “E’ bellissimo, ti piacerà”. Di Anna mi fido, in quanto a letture abbiamo le stesse inclinazioni. E in effetti, a ben pensarci, ho amato La solitudine dei numeri primi, apprezzo la prosa di Paolo Giordano, è improbabile che Il corpo umano mi deluda.

E infatti, Anna aveva ragione.

Ho letto le prime duecento pagine continuando a chiedermi: “Perché?” Perché sto leggendo un libro che parla di soldati, di Arma, di guerra, di bunker, di IED e di Fob?
La risposta l’ho trovata nei capitoli finali del romanzo, quando tutto si apre, si scopre, si rivela.
Quando il tenente Egitto si chiede: Cos’è una famiglia?, perché scoppia una guerra?, come si diventa un soldato?
Quando i corpi dei morti italiani rigano le pagine di sangue e squarciano la vita degli altri soldati, quelli che sono sopravvissuti.
Quando il mondo reale ricompare e l’esistenza vera non riesce a ripartire.
Quando, dopo aver girato l’ultima pagina, ho avuto bisogno di rileggere le prime quattordici, perché se un libro torna su se stesso, bisogna andare avanti e tornare indietro per capirne la circolarità.

E’ un romanzo penetrante, che scava, dissotterra, accosta il dolore fisico a quello incorporeo. Non è una di quelle storie che rileggerei, almeno non subito, perché per affrontarla di nuovo serve il coraggio di chi già sa.
Di chi sa che gli eventi descritti, frutto si dell’immaginazione, sono ispirati a fatti realmente accaduti.
Di chi sa che c’è sofferenza fra quelle pagine di corpi provati che lanciano sordi messaggi d’aiuto.
Di chi sa che è fin troppo istintivo immedesimarsi in quelle anime stravolte intrappolate in una tempesta di sabbia e vento.

Dove si trova adesso, nel cuore della valle, dentro questa arena, non c’è più traccia di pudore né di indignazione. Sono scomparse molte delle qualità che distinguono gli uomini dagli altri animali.

Il corpo umano

By night

Una balena costellata di mille luci blu. Un circuito immerso nella notte del sud est asiatico. Uno spettacolo stellare. Il Gran premio di Singapore è puro fascino.

Nel 2008 guardai con scetticismo la prima gara notturna della storia della Formula 1. Da sempre refrattaria alle novità, ero piena di dubbi e titubanze. Inutili perplessità che svanirono ben presto, nell’arco di qualche lap. Lo scetticismo iniziale lasciò il posto al rapimento per una gara unica, sotto il cielo buio, by night.

Da allora, ogni anno quando è il turno di Singapore, so che non sto per guardare un Gran premio come gli altri. Sto per guardare uno show. Il contesto è scenografico, le riprese aeree emozionanti, l’atmosfera scintillante. Come un film americano dagli effetti speciali sorprendenti, come una di quelle visioni che ti fanno dire: “vorrei essere lì, vorrei esserci anch’io”.

Per i piloti è una gara impegnativa. Con le luci artificiali, i riflessi, gli inganni dei fasci luminosi, sfrecciare a trecento km orari sfiorando di una manciata di millimetri i lunghi guard rail che proteggono il tracciato, è altamente rischioso.
E’ un azzardo in più, c’è la loro vita in ballo.

Non so cosa faranno Fernando e Kimi. E per una volta me ne importa un po’ meno.
Mi godo la magia.

Singapore by night.

Singapore Formula One Grand Prix night race track

Storia di Dirce negli orli dell’onestà

Ha trascorso la vita con gli aghi fra le dita, le forbici sulle ginocchia, la cinta metrica attorno al collo. Dirce è una donna anziana, ha quasi ottant’anni e da più di sessanta fa la sarta.

Nel paesino sul Secchia dove vive, tutti la conoscono. Intere generazioni di famiglie hanno indossato pantaloni da lei orlati, asole rifatte, abiti ripresi in vita. Ne ha misurate tante di cosce e di spalle, ha tratteggiato con il gesso bianco le linee sui tessuti, ha sagomato, tagliato, imbastito. E ne ha sentite tante di storie e di racconti, di glorie e di misfatti della gente del paese. Dirce non è una pettegola, non chiacchiera, non sparla, non giudica. Accoglie le confidenze e le tiene per sé, custodendole nelle sue notti di vedova insonne. E’ per questo che tutti la rispettano, perché Dirce è una donna discreta, una persona retta, una figura onesta che alla vita ha chiesto poco.

Un lunedì di fine estate è salita su un mezzo di trasporto pubblico per raggiungere la sorella in un paese vicino. Aveva in mano due biglietti, quello dell’andata e quello del ritorno, ma non ha obliterato. Forse per dimenticanza, forse perché non sapeva bisognasse farlo. Li teneva stretti quei biglietti, non voleva correre il rischio di perderli, voleva essere pronta a dimostrare la sua onestà in caso di un controllo, come aveva sempre fatto nel corso della sua lunga vita.

Due agenti, giovani e maleducati, l’hanno multata, redarguita, adombrata di vergogna. Un gesto quotidiano di brutalità.

Dirce non se ne fa una ragione, di notte piange e di giorno non cuce più. Non è il pensiero di come trovare i soldi per pagare quella multa che la turba e nemmeno il modo in cui è stata trattata.
E’ che per la prima volta nella vita qualcuno l’ha pensata disonesta.
E Dirce questo non lo accetta.

Nei suoi orli l’onestà.

Dirce

Il commissario Bordelli

E’ possibile affezionarsi ad un personaggio dopo aver letto di lui solo una manciata di pagine? A me è successo con Il commissario Bordelli, poliziotto dal cuore generoso creato dalla fantasia di Marco Vichi. A pagina venti mi sembrava già uno di casa, un amico fidato con cui fare lunghe e rassicuranti chiacchierate. E quando un personaggio si insinua così rapidamente nella mente del lettore, vuol dire che l’autore ha fatto centro. O almeno, con me l’ha fatto.

E’ la Firenze degli anni sessanta che fa da sfondo alla trama del romanzo, è la città deserta di uomini nel mese di agosto, affollata solo di zanzare irriducibili, di sigarette fumate a metà e di lattine di birra ghiacciate.
Bordelli è un uomo solo che ama ascoltare aneddoti del passato, che rievoca episodi di guerra, che racconta di legami forti nati in trincea. Tiene vivi i ricordi circondandosi di amici eccentrici e come lui soli: un medico legale ottantenne, un ladruncolo chef, una prostituta amante dei gatti, un inventore pazzo che si circonda di topi, un cugino follemente innamorato, un giovane poliziotto sardo figlio del suo compagno d’armi.

E’ questo l’universo sentimentale di Bordelli, il variegato panorama esistenziale con cui condivide i suoi momenti di umanità.

E poi si, ci sono anche un omicidio e un colpevole da scoprire, ma sono dettagli, non il fulcro del romanzo.

Bordelli ha una sua forza, è racconto a sé, vale la pena leggerlo per scoprire di lui.

Voleva dimenticarsi di avere cinquantatré anni,
di essere un orso malinconico senza più voglia di fare sogni,
un vecchio affezionato alla solitudine, incapace di aprirsi veramente.

Il Commissario Bordelli

Libero nell’aria

A chi sostiene che la musica “leggera” sia un’arte minore vorrei far ascoltare Libero nell’aria di Roberto Kunstler nell’arrangiamento in voce e musica di Sergio Cammariere.

Una canzone che è un racconto, un quadro, un cortometraggio.

Un intero universo narrativo racchiuso in un brano musicale. Una storia di guerra e contro la guerra, un racconto sulla natura umana e le sue debolezze, le sue colpe, le sue vigliaccherie. Versi e musica che nulla hanno da invidiare ai componimenti classici, alla letteratura impegnata, ai film d’autore.

A chi sostiene che la musica leggera sia inferiore alle altre forme di espressione artistica vorrei dire: mettetevi comodi, chiudete gli occhi, immergetevi per quattro minuti e mezzo in questa piccola meraviglia musicale e poi ditemi se davvero pensate che questa non sia arte.

Sapete che la guerra
è una vecchia commedia
una scomoda sedia
la caccia a un nemico
che alla fine tu non sai
riconoscere

Libero nell'aria

Overdose

Le qualifiche, il Gran Premio, le fasi finali di uno Slam.
Di fine settimana così, quando va bene, ne capitano tre in un anno. Sono quelli che chiamo i miei week end da overdose di sport, quelli in cui riesco a mettere da parte ogni impegno, ogni proposito, ogni incombenza per poter trascorrere lunghe e silenziose ore davanti allo schermo in compagnia delle mie passioni sportive.

E’ tempo per me, è tempo sacro.

Dei quattro tornei di tennis più importanti del mondo l’US Open è quello che mi piace meno. Perché il cemento è una superficie che fatico a capire, perché penso che il pubblico chiassoso e la musica ad alto volume fra una pausa e l’altra del gioco siano innaturali per questo sport, perché la tradizione tennistica americana non mi ha mai appassionato, ad esclusione di Andre Agassi, uomo, atleta ed eroe moderno che ha cambiato la concezione del tennis. In semifinale, sui lati opposti del tabellone, ci sono i due tennisti del ranking per cui mi ritrovo sempre a tifare: Nole, il numero uno indiscusso e Rafa, risalito in pochissimi mesi al secondo posto della classifica mondiale. Sono loro che vorrei vedere giocarsi la finale sull’Arthur Ashe, il campo centrale di New York.

Di tutti i Gran Premi, invece, quello di Monza è fra i miei preferiti. Perché in un’epoca passata ho avuto la fortuna di frequentarne la pit lane e i box, perché il Parco del Lambro è un contesto naturale che il mondo ci invidia, perché un tappeto umano di magliette, cappellini e bandiere col cavallino rampante è uno spettacolo impagabile che solo Monza può offrire.
Ancora una volta le qualifiche hanno dato ragione alla Red Bull. Nel mio sogno da overdose immagino Fernando sul primo gradino del podio, con Kimi al suo fianco.

E’ solo un sogno, lo so.

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La zona cieca

Se è vero che gli opposti si attraggono, che le anime fra loro distanti si compensano, che quando si è diversi ci si incastra alla perfezione, cosa accade quando a provare attrazione sono due personalità convergenti, egualmente disturbate?

Succede che l’incontro di sofferenze endemiche genera nuove sofferenze, ulteriori percorsi di dolore, paure e pericoli che prima non c’erano. Lo sanno bene Lidia e Lorenzo i protagonisti de La zona cieca, psichiatrica e anoressica lei, depresso e pieno di dipendenze lui. E’ rivelatore questo libro di Chiara Gamberale, perché racconta un lato del disagio che di solito non si indaga: il disagio doppio, il disagio che si somma nell’amore.

Le storie che raccontano di percorsi mentali complicati e irrazionali esercitano su di me un fascino ancestrale, come se l’origine dell’uomo fosse racchiusa in quei percorsi confusi, non nell’evoluzione, non nella socialità.
Il disagio psichico mi attira più di ogni altra manifestazione della mente umana, più dell’ingenuità e purezza dell’infanzia, più della saggezza e pacatezza della vecchiaia, più del genio, più della bellezza, più dell’estro, più dell’intelligenza.

Più di tutto mi attira la follia.

Ecco perché mi è piaciuto molto questo romanzo di Chiara Gamberale. Di lei conservo un illuminante e dolcissimo articolo sulla sindrome bipolare, in cui racconta di sé e della propria vita altalenante. Ogni tanto lo rileggo, cerco di immedesimarmi, provo a capire. So che non potrò mai comprendere fino in fondo, però so che continuerò a provarci, attraverso i miei libri, coi miei racconti, nei miei pensieri.

 

Le mie parole

Non ho idea di come si scriva il testo per una canzone. Non so se si debbano lasciar scorrere liberamente le parole o se esistano regole di componimento ben precise. Forse basterebbe immaginare di scrivere una poesia rispettandone la metrica o, chissà, forse sarebbe bene partire dalla musica. Di come ad un testo ci si abbini una melodia, poi, ne so ancor meno: quando guardo spartiti e note i miei occhi vedono solo simboli misteriosi.

Ogni volta che mi viene in mente di scrivere frasi per una canzone pratico un rituale: mi metto comoda, accendo l’ipod e ad occhi chiusi ascolto Le mie parole di Pacifico nella trasposizione eufonica di Samuele Bersani. Mi basta ascoltare pochi versi per abbandonare all’istante ogni velleità di paroliera perché più l’ascolto e più mi rendo conto che è questa la canzone che avrei voluto scrivere io.

sono andate a dormire
sorprese da un dolore profondo
che non mi riesce di spiegare
fanno come gli pare
si perdono al buio per poi ritornare

Anche le mie parole si comportano così, arrivano all’improvviso, repentinamente se ne vanno, spesso ritornano di notte ed è solo quando si riempiono di un inspiegabile dolore che iniziano ad assumere un significato chiaro.

Pacifico lo sa, l’ha scoperto e scritto molto prima e molto meglio di me.

Le mie parole