A Novi di Modena una domenica mattina.
Scendo dall’auto nella piazza semi deserta e mi guardo intorno, allibita e incredula. Crateri desolati al posto dei palazzi, edifici storici puntellati, case e chiese messe in sicurezza da ponteggi fitti come trappole. Osservo a lungo un paese inagibile, commovente nella sua dignità. E’ passato un anno e mezzo dal terremoto e il silenzio angosciante delle case crollate si fa sentire come fosse un boato.
Mi avvicina un signore molto anziano, osserva che sono una forestiera perché non mi ha mai vista in giro per il paese. Gli rispondo che si, non sono di Novi, ma abito a pochi chilometri. Mi dice venga con me, le faccio vedere la mia casa. Mi conduce in una laterale della piazza e con una mano indica verso il cielo. C’è un balcone imbragato da tubi di ferro scuri come la pece i cui cardini cromati e luccicanti ne contrastano la severità.
Quello è il mio balcone, quella è la mia casa.
Ho avuto una vita lunga e tribolata, ho fatto la guerra, nel ’43 sono salito su una nave che mi ha portato in Africa e sono rimasto laggiù per cinque interminabili anni.
Ho sofferto, combattuto e ricostruito. Ho figli e nipoti.
Quella è la mia casa e non ci tornerò mai più.
Si chiama Gino, ha quasi novant’anni e mi ha commossa nel profondo.