Vita dopo vita

Vita dopo vita

“Miglior romanzo dell’anno per The New York Times, The Guardian, Time e molti altri. Da mesi ai vertici delle classifiche americane e inglesi.”
E’ la scritta bianca sulla fascetta rossa che avvolge la copertina di Vita dopo vita di Kate Atkinson. Un invito all’acquisto irresistibile: lo compro e subito lo leggo.

Ora, che l’ho terminato, se quella fascetta potessi riscriverla io, impiegherei poche parole: “Un polpettone, ma ben scritto.”

L’idea non è originale, ci aveva già pensato, più di trent’anni fa, Krzysztof Kieślowski con Destino cieco, poi ripreso da Peter Howitt in Sliding doors.
E’ il genere: che corso avrebbe preso la tua vita se…. Il problema è che in Vita dopo vita di corsi paralleli ce ne sono parecchi e non è facile riuscire a seguirli tutti, bisogna mettercisi di impegno. Scenari che vanno e vengono, episodi che ritornano ripetutamente su loro stessi da angolature ed evoluzioni diverse delle plurime esistenze di Ursula, la protagonista, componente di una famiglia borghese nell’Inghilterra fra le due guerre mondiali. Ad ogni capitolo c’è da ritessere la trama, c’è da capire di quale vita si sta leggendo e, una volta ripreso in mano il filo, ci si gode una lettura scorrevole e riccamente documentata dal punto di vista storico.

Alla fine, però, lo ammetto, non ci ho capito granché. O forse non c’era molto da capire, chissà.

Sarà che sono in vacanza e ho la mente leggera, sarà che il libro è infarcito di frasi in tedesco senza alcun caritatevole sottotitolo a tradurle, sarà che ho seriamente rischiato di chiamarmi Ursula anch’io (e mi è andata bene, per fortuna!); insomma, Vita dopo vita sarà pure un campione d’incassi mondiale, ma per me è un gran polpettone.

Giusto perché sono al mare e piove a dirotto da due giorni, giusto perché ho tutto il tempo per leggere 521 pagine senza arrabbiarmi troppo.

Il senno di poi è una cosa meravigliosa. Se tutti capissimo le cose all’istante, non ci sarebbe nessuna storia da scrivere.

Vita dopo vita

Col sorriso, pedala

Pedala, col sorriso sulle labbra, tutte le mattine feriali. Non so quale sia l’origine del suo percorso, conosco solo una parte del suo viaggio. Pure l’approdo, ignoro. Saranno almeno dieci km, misurati a spanne, stando a ciò che posso vedere fra le nubi e gli spiragli di sole di questa estate bizzarra.

Fosse una ciclista con tanto di tuta tecnica e casco aerodinamico, mi sembrerebbe normale, nemmeno la noterei; ma ciclista non è, sportiva nemmeno.

E’ una donna in carriera, o almeno questa è l’idea che mi sono fatta di lei.
Indossa, ogni giorno, lo stesso vestito damascato in tre diverse varianti di colore: il lunedì viola, il martedì verde, il mercoledì blu scuro, che poi ripete, nella medesima sequenza, alterando la corrispondenza fra colori e giorni della settimana perchè, con i gruppi dispari, i conti non tornano. Sopra l’abito una giacca bianca, elegante, dal bavero tirato su. Ha le gambe nude, i piedi protetti da sandali colorati, le braccia elastiche e la presa salda sul manubrio. Nel cestino, la borsetta.

La supero ogni mattina, ad altezze diverse della porzione di percorso che condividiamo, a volte in mezzo alla campagna, ogni tanto nell’incrocio di un paese o sulla provinciale, dove le auto sfrecciano e, pericolosamente, la sfiorano. Sempre più spesso, mentre la affianco con l’auto per superarla, la guardo. Mi incuriosisce l’eleganza che pedala, quei lunghi capelli biondi quasi sempre liberi e scompigliati dal vento, quegli occhi invisibili dietro i grandi occhiali scuri che le negano l’espressione. Vedo solo le labbra: sicure, sfrontate, sorridenti.

Provo l’impulso di accostare, fermarmi, fermarla, presentarmi. E chiederle come si fa, alle 7,30 di ogni mattina, ad affrontare una pedalata così impegnativa con quel sorriso rassicurante pennellato sulle labbra.

Vorrei che mi rispondesse: “Si, è davvero possibile trattare la vita così.”

Pedala

Hockenheim so sad

Undici curve a destra e sei a sinistra in un parallelepipedo di circuito che sa di teutonica razionalità.

Vedo Kimi, compresso e sfilato come in un autoscontro da luna park, finire doppiato.
Vedo Fernando spremere al meglio la sua rossa, per poi arrendersi al fuel control.
Vedo scintille e fuoco.
Vedo sorpassi e duelli, cappottamenti e incendi.

Un gran premio appassionante, dicono i commentatori, dinamico e divertente.
Un divertimento triste, aggiungo io.

Ma forse è solo mia, tutta questa tristezza.

Hockenheim

Ovunque, proteggici

Ovunque

L’ho letto lentamente, con l’attenzione e la dedizione che riservo ai libri importanti. Ad alta voce ho ripetuto, e nel silenzio ho ripercorso, le pagine più dense. Quasi tutte, direi.

Un tragitto lungo, a tratti arduo come scalare una montagna a piedi nudi, impegnativo come una responsabilità che non si vuole avere, stimolante e pervasivo come una sfida continua che non si deve perdere. E’ così Ovunque, proteggici di Elisa Ruotolo: un romanzo di sostanza, un racconto doloroso, rivelatore di una lingua che credevo esaurita e che invece ho riscoperto viva e vigorosa.

Ci sono inciampata su Ovunque, proteggici leggendo una recensione autorevole che così titolava: Più puzzolente e affascinante di Cent’anni di solitudine. Lascerei stare Gabo, non scomoderei “Cent’anni”, romanzo assoluto che di paragoni non ne può avere.

Ovunque, proteggici ha valore intrinseco, consistente di trame e personaggi, ricco di una prosa meravigliosa che di paragoni non ha bisogno.

Elisa Ruotolo merita di essere letta perché è capace di elevare il linguaggio e di arricchire con le parole. Nella mia libreria, la posiziono fra i classici, perché dei classici ha la forza e perché dei classici, ne sono certa, avrà la stessa, inesauribile, durata.

Dicono ci sia un punto debole nelle cose. Nei vetri, per frantumarli. Nel ferro, per domarne la forma. Nei corpi, per morirne.

Ovunque

Impasta, Eugenio, impasta più che puoi *

Le 2.44, come ogni notte. I grilli cantano, le fronde ondeggiano e io non dormo.
La manitoba l’ho comprata, il lievito pure, ma mica sono convito di andare in cucina ad impastare. Eppure Emanuela, la mia amica cuoca, sono mesi che insiste:
“Impasta, Eugenio, impasta più che puoi, la panificazione è terapia, la panificazione è amore, la panificazione è arte e ti aiuta a dormire.”

Spalanco le finestre e lascio che il buio stellato di luglio entri in cucina. Impasterò farina, arte, lievito, amore, olio e terapia al chiaro di luna. Dei dosaggi me ne frego, rovescio la farina sul tavolo, perché la spianatoia non ce l’ho, ci faccio un buco in mezzo e ci verso l’olio, il lievito, il sale, lo zucchero, l’acqua tiepida. Affondo le mani nel cratere, i liquidi fuoriescono dai bordi, rincorro i rigagnoli sul tavolo, li tampono con una pioggia di farina, cerco di tenere unito il tutto e inizio ad impastare.

Sbriciolato, friabile, slegato.

Le mani non si arrendono, impastano.

Compatto, rugoso, resistente.

Impasta, Eugenio, non ti fermare, ora serve vigore.

Elastico, flessuoso, cedevole.

La pagnotta è pronta, con la punta di un coltello ci incido sopra una stella e la osservo lievitare.

Il sole è sorto, il pane è nel forno.

Ho sonno si, un sonno atavico da non resistere. Mi porterò la pagnotta nel letto, come la gatta di peluche che avevo da bambino. Mi farà compagnia, si addormenterà con me, la mia pagnotta di pane.

 

*questo racconto ha partecipato al gioco di scrittura su:

http://mimettoingioco.wordpress.com/
http://mimettoingioco.wordpress.com/2014/07/04/impasta-eugenio-impasta-piu-che-puoi/

pagnotta-di-pane

Storia mia, per riavvolgere la pellicola

Poggiato ad un deambulatore, avanza, malfermo, fra le corsie del supermercato. E’ molto anziano, di panni pesanti vestito, un rigido cappello a tesa larga gli fa ombra sugli occhi. Secco più di un ramo d’inverno, grinzoso e malinconico, è arroccato nell’incedere. Si muove lento e circospetto, chiuso in una rigida ritrosia, avvolto nell’orgoglio di farcela da solo.

Lo incrocio diverse volte nel percorso fra gli scaffali e quando il mio carrello sfiora le ruote del suo presidio ingombrante, gli chiedo scusa. Lui non alza lo sguardo, nemmeno risponde.

Vorrei offrirgli aiuto, ma non lo faccio; è una presenza, la sua, che mette distanza.

Alla cassa impiego molto tempo a svuotare il mio carrello debordante. Affaccendata fra i cereali, il pesce, il prosciutto e i rapanelli, non presto attenzione a ciò che sta succedendo nella cassa a fianco. Sento il cassiere discutere con il signore anziano, ma sto caricando i gelati, le crocchette per Zampetta, il detersivo per i delicati e non capisco.

Imbusto le provviste e pago il mio conto, che supera abbondantemente i cento euro. Riafferro il carrello e vedo, abbandonata nella cassa di fianco, la spesa del signore anziano.

E lui che non c’è più.

Osservo quei viveri inerti: mele, lambrusco, insalata, spaghetti, pane. Chiedo al cassiere per quale motivo il signore abbia lasciato lì la sua spesa.

Voleva pagare il conto con il codice fiscale – mi risponde – non aveva altro.

Mi fermo e rifletto. 
Vorrei riavvolgere la pellicola, bloccarla a pochi minuti fa, tirare fuori dal portafoglio gli otto euro e settanta centesimi per pagare la spesa di quel signore anziano. Vorrei cambiare il corso delle cose.

Guardo fuori, del signore grinzoso e malinconico non c’è traccia. Eppure andava lento nel suo deambulatore. La pellicola non si può ravvolgere. Ci sarà una prossima volta  – mi dico – ma non ne sono così convinta.

Spesa

British overdose

E rieccola, la domenica che ospita nella stessa nazione la finale di uno Slam ed un Gran premio, una di quelle domeniche rare che all’inizio dell’anno segno sulla Moleskine con il titolo: overdose. Non v’è impegno, oggi, capace di mettere in discussione il mio tempo sacro, la mia overdose di sport, quelle ore di sospensione che hanno effetti benefici sulla mia stabilità mentale. L’elaborazione dei pensieri, anche quelli più negativi, va in stand by. Concederselo è un dovere, un lusso necessario.

Siamo a Silverstone, a metà strada fra Londra e Birmingham; siamo a Wimbledon, a due passi dal Tower Bridge. E’ una british overdose, quella di oggi.

La Ferrari è sotto accusa, le strategie si stanno rivelando disastrose, speranze non ce ne sono. Fernando fa il diplomatico e Kimi, come al solito, tace. Spettacolo sotto la pioggia o gran premio prudente dal dominio incontrastato di Nico Rosberg? Rimonta di Hamilton o risultato a sorpresa di un redivivo Vettel?
It doesn’t matter, direbbero a Londra, è tempo sacro, sia quel che sia.

Ogni volta che Roger Federer raggiunge la finale di uno slam, si legge e si dice: “Godiamocela perché potrebbe essere l’ultima”. Me la godrò davvero perché a contendergli la coppa sull’erba dell’ All england lawn tennis and croquet club ci sarà Nole Djokovic. Perfezione ed eleganza non deludono mai.

6 luglio 2014, british overdose.

British overdose

Overdose

Cosa ti cade dagli occhi

Con i libri paradossali, di solito, non vado d’accordo. Ma con un libro paradossale che è anche verosimile, che è pure scritto bene, che fa piangere e persino commuovere, ho scoperto di andare d’accordissimo.

Cosa ti cade dagli occhi di Gabriele Picco è un libro così, capace di colpirti nella sua illogicità, abile a strappare sorrisi, inevitabilmente cialtrone quando fa appello alle ragioni del cuore.

Ennio, ragazzo affetto da introversione e da imbarazzanti problemi intestinali, è incapace di piangere. Custode di un segreto più grande di lui, lascia l’Italia per trasferirsi a New York in cerca di un futuro migliore o, forse, di un presente accettabile. Trascorre le sue giornate a fotografare lacrime piene di alberi, nuvole, fiori e palazzi, a inciampare in stravaganti quaderni ricchi di disegni, a vendere appartamenti improponibili infestati da animali impertinenti.

Con l’aiuto di una giovane giapponese che ogni giorno scrive lettere a Dio, di un ragazzo che vive con una telecamera nei capelli e di un anziano collezionista di polvere, potrà, a un soffio dalla morte, rivivere il passato, ritornare nel presente e persino immaginare il futuro.

I disegni, nel libro, ci sono davvero, li ha abbozzati lo stesso Picco con tratti nitidi in chiaroscuro.

I segreti sono le pellicine che si formano sulle labbra screpolate della gente, vanno tirati via a piccoli morsi, stando attenti a non sanguinare.

dagli occhi