
Ha la passione per le descrizioni dei volti, Teresa Righetti.
Non c’è personaggio di “Se mi guardo da fuori“ di cui non conosciamo l’esatta fisionomia: la forma degli occhi, gli angoli della bocca, l’incurvatura del naso.
E pure per gli abiti, sappiamo sempre cosa indossano tutti, in ogni minimo particolare, dai maglioni oversize alle scarpe, dalle camicie fresche di lavanderia agli stivali, dai pantaloni di lino ai cappotti di lana.
Introspettivo, chiuso sulla protagonista, ripetitivo nel suo girare a vuoto.
L’insicurezza della protagonista, Serena, regna sovrana e permea l’atmosfera.
Se questo era l’intento: ammantare di insicurezza ogni dove e ogni perché, è di certo riuscito. Se invece si voleva dar conto di cosa c’è dietro a questo tipo di disagio, allora no, il libro si ferma prima.
Lo stile frammentato, poi, qui non è cifra stilistica. Sarà di certo musica moderna per orecchie più giovani delle mie.
Così, fino al penultimo capitolo.
Poi arriva l’ultimo, che è sorprendentemente sentito, scorrevole, viscerale e che in parte salva il romanzo, anche se fuori tempo.
“Sento, in questo momento concreto e sospeso, che la mia inquietudine è viva e irrazionale e dolorosa, anche. Che parla, questa inquietudine. Dice – Vuoi qualcuno che ti abbracci forte e ti dica andràtuttobene, cipensoioate, e invece non ce l’hai, vuoi imparare a prenderti cura di te stessa e a non avere bisogno di nessuno, e invece non ci riesci; vuoi scegliere delle cose e sapere che sono giuste nell’attimo esatto in cui le scegli, e invece non puoi.
La mia inquietudine è spietata. Ma in questo momento, con queste persone che non si aspettano da me che sia qualcosa che non posso essere, implora – Impara a volermi bene.
Il mio mostro è uscito fuori e ha trovato il suo posto.”