La vedova scalza

Nelle sere di luglio sotto il pergolato di Sa Roia Traversa si beve il filu ferru di Luigi. Fra le pietre di basalto e i fiori di fustinaga, le parole di Rita, magnifica padrona di casa e donna dall’intelligenza profonda, facilitano il fluire delle conversazioni. Si finisce, quasi sempre, per parlare di libri.

Quando Luciano, Remo e Giorgio, amici di Sa Roia e conoscitori della Sardegna, scoprono che non ho mai letto Salvatore Niffoi, mi invitano ad iniziare con La vedova scalza: un incantevole gioiello poetico, così lo definiscono.

L’ho comprato lo scorso anno, appena rientrata dalle vacanze, ma l’ho preso in mano solo in questi giorni di cupa primavera impaziente di luce.

La lingua sarda è ostica, chiusa, secca e un romanzo scritto in sardo è un romanzo difficile ed ostinato. E’ quel che penso dopo aver letto le prime pagine costellate di incomprensibili frasi dialettali della Barbagia. Qualcosa mi invita a proseguire nella lettura, forse perché colgo una rude musicalità in questa lingua di terre aride e anche se non capisco i dialoghi alla lettera, ne afferro il senso, sempre più, mentre avanzo con le pagine.

Poi, all’inizio del quarto capitolo, le parole degli amici di Sa Roia all’improvviso diventano vere perché incontro questa frase che apre le porte al mondo poetico di Niffoi:

Le case di Taculè sono come pallettoni sparati nella roccia, conficcate nel granito con le loro radici invisibili, fatte di lamentazioni e canti salmodiati all’imbrunire.

E’ una storia violenta quella della vedova scalza, c’è violenza nell’amore, nell’orgoglio, nelle promesse e nelle vendette dei ruvidi personaggi che animano le pendici del Gennargentu negli anni trenta del secolo scorso.

Mintoia, bambina ribelle, lega il suo destino a Micheddu, indomabile brigante di Barbagia. Una vita paziente, di rabbia e fierezza, un’esistenza segnata da emozioni spietate. Non c’è quiete né dolcezza nelle vite di Laranei e Taculè, non c’è pace né serenità nella natura di queste comunità che incarnano le consapevolezze tipiche dei popoli orgogliosi ed assennati.

La poesia non è solo limpida luminosità, è anche tormento, ansia, brutalità, pagine oscure. Niffoi ha incastonato un incantevole gioiello poetico nelle rocce di Barbagia, con la forza e la grandezza di chi conosce l’animo sardo nel profondo.

Il tempo ci consuma lentamente come steariche di chiesa. Di noi rimane solo odore di bruciato e fumo, che si perde nell’aria, dove tutto è silenzio e cecità.

La vedova scalza (2)

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Storia di Luciano, runner di parole

Sette del mattino, è un giorno di festa, una leggerissima bruma promette il sole. Fino a ieri sera ero indecisa se buttarmi o no. Mi basta guardare la campagna irradiata di luce caliginosa per capire che questo 25 aprile è la giornata giusta per mettermi alla prova come runner.

La mia prima corsa competitiva. Mi alleno da ottobre, ce la dovrei fare.

Centinaia i podisti sulla linea di partenza, molti di loro hanno la pettorina con il numero e le targhette degli sponsor. Mi ci infilo in mezzo, senza pettorina, senza divisa da runner, con le mie scarpe sfatte sentendomi un’intrusa. Tanto non gareggio con loro, in tutte le cose della vita competo con me stessa, lo faccio ogni singolo giorno, da che io ricordi.

Hanno un passo veloce questi runner di professione, difficile che io possa tenere questo ritmo senza crollare prima della metà del percorso. Di fianco a me c’è Luciano che ha un incedere svelto e la stessa cadenza dei miei passi. Parla velocemente questo signore modenese di quasi sessant’anni che gira le province dell’Emilia sfidando l’asfalto con la forza delle sue gambe. Non so come faccia. Io, quando corro, non ho fiato per le parole.

Non saprei descriverlo Luciano. Corre al mio fianco e non mi giro per guardarlo. Alla terza curva del percorso intravedo radi capelli bianchi, la pelle scura di chi ha già corso sotto il sole di primavera e un paio di occhi chiari e stanchi, da nonno.

Luciano parla modenese stretto, con le E chiuse e le Z zifolanti e mi racconta la sua vita. A sei anni sui campi da calcio, da ragazzo il tennis agonistico, poi la corsa e la biciletta. Mi parla dei suoi figli, biker esperti, dei problemi di salute della moglie e di come, in un freddo giorno di gennaio di qualche anno fa, gli è morta la madre all’improvviso, portandogli via un pezzo di vita e un ritaglio di cuore.

Lo ascolto attenta, immagino i visi e le storie dei suoi famigliari, è una bella trama per un racconto padano. Non parlo, mi limito a qualche breve esclamazione ogni tanto. A Luciano non servono le mie parole, ha bisogno di qualcuno che lo ascolti, correndo. Intanto i chilometri passano e il mio cervello, immerso nei racconti di Luciano, non sente la fatica delle gambe e il sudore che scende copioso dalle tempie. Per la prima volta da quando corro, ho fiato in abbondanza, le gambe forti e non avverto il richiamo della stanchezza. La testa non mi impone di fermarmi.

Taglio il traguardo senza Luciano, cha ha preso il percorso più lungo salutandomi con un arrivederci. Non credo che ci rivedremo più. Sul filo di questo traguardo gli dico grazie.

E’ il giorno della Liberazione e ho imparato una cosa importante: condividere la fatica ci aiuta ad essere migliori.  Di fare tutto da soli, non sempre ne vale la pena.

Luciano

Rafa è Rafa

Spalla sinistra, spalla destra, naso, orecchio destro, naso, orecchio sinistro, naso, sei palleggi, lancio della palla, estensione del braccio, impatto a 200 km orari.

Questo è Rafael Nadal.

Ad ogni turno di servizio un eterno rituale, una serie ripetitiva di scaramanzie, una vera ossessione.

Come quella delle bottigliette d’acqua e di integratori da cui beve sempre nella stessa sequenza e che appoggia al suolo nella stessa identica posizione, solo dopo avere accuratamente avvitato i tappi con gli stessi identici movimenti. Ogni volta così, ogni cambio di campo di ogni partita da quando Rafa è Rafa. Un tennista diverso da tutti gli altri.

Se cercate sue immagini in rete ne troverete una impressionante: Rafa che colpisce un rovescio senza maglietta. Una montagna spaventosa di fasce muscolari in tensione, una tartaruga Ninja. Raffaello, appunto. Di uno così pensereste che fa il culturista, non di certo che pratica lo sport dell’eleganza perché ha un corpo disumano, che spaventa. E un talento altrettanto disumano perché contrario alle regole del tennis in cui la potenza fisica dovrebbe essere bilanciata dalla raffinatezza del gioco cha Nadal proprio non ha.

Rafa è preciso, potente, coordinato, padrone del campo, ma ogni maestro che si rispetti non consiglierebbe mai ad un allievo di imitare i suoi colpi. Soprattutto quel dritto a 360° che nessun manuale del tennis potrebbe mai contemplare, che sa fare solo lui e che riesce sempre a mettere dove vuole.

Oggi Nadal ha deluso dicevano i commentatori sportivi. Io dico di no, dico che a Rafa si perdona tutto, anche di essersi fatto sovrastare da Djokovic nella finale del torneo di Montecarlo, quello che inaugura la stagione della terra rossa, la sua superficie preferita, il campo di cui è Re incontrastato.

Oggi a Rafa è mancato il rovescio e la convinzione di poter vincere per l’ottava volta consecutiva il suo torneo portafortuna dicevano altri commentatori.

Io dico che il rovescio e la convinzione torneranno e che a Rafa si perdona tutto.

Perché Rafa non è perfetto, Rafa è unico.

Tre volte racconto

Ha vinto Anna che viene da Napoli e che con il suo racconto Pranzo dai nonni  ha esplorato con leggerezza ed ironia il tema del desiderio fra due persone anziane.

Riuniti attorno ad un tavolo ci siamo conosciuti: io, Anna, Claudia, Paolo, Katia, Stefano, Alida, Roberta, Mattia, Marina. Divisi da km di distanza, da vissuti diversi e da stili narrativi eterogenei. Uniti dal Premio Loria e dalla passione per la scrittura; per alcuni di noi più strutturata, per altri più casuale.

Il nostro incontro doveva suggellare la fine di un’esperienza. Preferisco immaginarlo come l’inizio di un nuovo percorso, quello dell’intesa che nasce spontaneamente fra scrittori solidali.

I nostri dieci racconti sono ora pubblicati nell’antologia del Premio Loria 2013.

Matilde e Thomàs si trovano fra le pagine di Tre volte racconto, edito da Transeuropa e finanziato dal Comune di Carpi e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Carpi.

Grazie ad Alessandra Burzacchini, ad Anna Prandi, a Davide Bregola e a Martino Gozzi.

E grazie a Lella Costa che ha reso speciale la cerimonia di premiazione.

Tre volte racconto1Tre volte racconto2

Premio Loria, il giorno della finale

Torino, Genova, Napoli, Forlì, Padova, Bologna, Pistoia, Piacenza.

Arrivano da tutt’Italia i dieci finalisti del Premio Loria 2013.

Felice di essere una di loro, mi preparo ad affrontare questa giornata di seminari e premiazioni con l’animo leggero.

Sarà un sabato da ricordare. In bocca al lupo a tutti noi.

Corsa, neve, freddo, luce.

http://www.premioloria.it/finalisti/

http://www.premioloria.it/Programma%20Premio.pdf

https://www.facebook.com/premioarturoloria

Falso movimento

Che dici, sarà il caso di ordinare?

Cosa potrà mai racchiudere una frase così banale? Vi sembrerà strano, ma questo verso all’apparenza insignificante può racchiudere l’essenza di un amore.

Ascolto Falso movimento e vedo questa scena: è notte, in una città di mare, un uomo ed una donna affrontano il loro primo appuntamento al tavolo di un ristorante. Il protagonista è lui, la scena gli gira intorno; da un’inquadratura in prospettiva si passa lentamente ad un primo piano. La telecamera è fissa sul volto di quest’uomo, sulla sua espressione incredula e beata. Lei è come se non ci fosse, è solo una figura eterea oggetto della sua meraviglia. La meraviglia dell’amore quando non te lo aspetti più.

De Gregori non è mai banale, usa metafore ardite per rivelarci verità che già conoscevamo ma di cui non eravamo consapevoli. E’ così che nei suoi versi d’artista l’amore diventa un mascalzone, un gran maleducato che viaggia contromano e parcheggia sempre dove vuole, un dispettoso che fa vedere la lingua, che parla con la bocca piena, che si presenta senza invito, proprio in mezzo alla cena.

L’amore si scaraventa su quel tavolo di ristorante e lui, il protagonista, lo osserva estasiato. Non lo contrasta, nemmeno ci prova a combatterlo. Ci si abbandona al punto tale che la cosa più naturale da fare è dire: Che dici, sarà il caso di ordinare?

E’ una metafora leggera questa canzone che assomiglia ad un racconto, un racconto che sembra già un cortometraggio.

I miei versi preferiti sono quelli finali:

Tu mi guardi negli occhi
io non so dove guardarti
stasera sono un libro aperto
mi puoi leggere fino a  tardi…

Ascoltatela e ditemi se vedete la stessa scena che vedo io.

Lap 56/56

Viste dall’alto sembrano foglie di Loto sospese per aria le coperture delle tribune dell’ultima chicane del circuito di Shanghai. Giganteschi funghi se si guardano da sotto. Mostri alti decine di metri hanno incorniciato la prima vittoria stagionale della Ferrari.

Lo abbiamo capito alla prima curva che Fernando avrebbe dominato il Gran premio di Cina, ma non ci abbiamo creduto fino all’ultimo giro. Forse per scaramanzia, forse perché Vettel fa paura anche quando parte nono o forse perché è dal 2007 che non riusciamo a gioire pienamente di una gara.

Una dimostrazione di forza quella del team Ferrari: pit stop in sicurezza, pneumatici performanti, freddezza ai box, strategia di gara inappuntabile. Un fine settimana perfetto, una squadra vera.

Alonso ha vinto senza spingere perché la sua monoposto di oggi viaggiava con le ali.

Alla sua destra Kimi, alla sua sinistra Hamilton, sul podio Fernando ha festeggiato così, con un sorriso sornione. A dimostrazione che l’irruenza non paga quasi mai, la pazienza si.

Shanghai Lap 56/56 e fuori c’è il sole.

Il quaderno di Maya

Non sarò mai capace di scrivere come Isabel Allende.

Nelle pagine dei suoi romanzi, come in quelle delle sue memorie, il talento e la tecnica linguistica si fondono in uno stile narrativo di una semplicità prodigiosa.

La natura, la sorte e chissà, forse anche le congiunzioni astrali, hanno deciso di donare a questa scrittrice immensa la capacità di rendere magica ed affascinante qualsiasi cosa le venga in mente di raccontare. Tutti i grandi narratori sudamericani hanno la magia nel sangue, ma è Isabel la maestra assoluta di storie strabilianti.

A differenza della maggior parte dei suoi scritti, per lo più ambientati in passate epoche storiche, nel quaderno di Maya la Allende si cimenta con una trama moderna, rivisitando in chiave contemporanea il linguaggio della meraviglia.

Il risultato è un romanzo incantevole ed ingannevole. Quando mai vi è capitato di rendervi conto solo nelle pagine finali di un libro che stavate inconsapevolmente leggendo un giallo? E quante volte, affrontando l’ultimo capitolo, vi siete detti: “E’ vero! Il colpevole lo avevo individuato fin dall’inizio, ma non sapevo che bisognasse farlo!”.

A me non era mai capitato prima.

La Allende è così, irretisce il lettore nelle trame, lo avviluppa nelle maglie di seducenti incantesimi, lo conduce nel suo mondo fantasioso eppur reale, semplice eppur mirabolante.

Maya, una ragazza che ha vissuto l’alcool e le droghe pesanti, è costretta a scappare da un’America all’altra per sfuggire alla giustizia e al male che si autoinfligge. Incontrerà personaggi singolari, un animale che la farà compagnia e affetti profondi che le salveranno la vita.

C’è la Las Vegas dei giorni nostri descritta in tutta la sua crudeltà, c’è Toronto coi suoi rigidi inverni, uno scorcio di Danimarca ed il Cile, che con la dittatura di Pinochet emerge dalla memoria delle pagine.

No, non sarò mai capace di scrivere come Isabel.

Il quaderno di Maya

Il colpo perfetto

Di palline ne ho colpite milioni nella mia vita. Milioni di colpi da eterna principiante. Talento tennistico non ne ho affatto, pura passione e divertimento mi spingono a giochicchiare ancora. Ho sempre ambito al colpo perfetto e dacché mi ricordi, io, di colpi perfetti ne ho prodotti ben pochi, nell’ordine delle decine o poco più.

Quando inizi a giocare a tennis, che tu abbia otto anni o cinquanta, l’insegnante cerca di inculcarti la prima regola aurea: devi concepire la racchetta come il prolungamento naturale del tuo braccio. La racchetta fa parte del tennista, è la sua estensione, il suo raccordo con il campo e con la logica del gioco. Finché non avrai fatto tuo questo semplice concetto, non potrai imparare a giocare, mettitelo bene in testa!

A otto anni, interpretando alla lettera le parole della mia maestra di tennis di allora, cercavo di capire su quale braccio dovevo concentrarmi quando colpivo i miei primi rovesci a due mani. Prolungamento del destro, del sinistro o di entrambi? Domanda puerile, direte voi. E invece no, perché quando a quell’età ti dicono che seguire pedissequamente le regole è l’unico modo per capirci qualcosa in uno sport così tecnico e complicato, ti interroghi su ogni minimo dettaglio e anche la domanda più banale può diventare un difficile rompicapo.

Ma ai bambini, si sa, le regole non piacciono; seguono l’istinto, che è più semplice.

E così, pallina dopo pallina, in barba alle regole del maestro, anche il più piccolo dei tennisti trova una maniera soggettiva di rapportarsi con la racchetta e una modalità di gioco che gli appartenga completamente, una vera e propria impronta personale.

Della prima regola aurea, dopo un po’, non ci si ricorda nemmeno più, perché si impara a giocare soprattutto con l’istinto. E’ un impulso naturale che guida il tennista a cogliere il senso del gioco e a “sentire” la palla.

La vera differenza fra chi è un tennista e chi non lo sarà mai, sta proprio nel colpo perfetto. Che non è quel colpo in cui magicamente tutte le regole del tennis si materializzano in un unico gesto atletico da integrale interpretazione del manuale.

No, il colpo perfetto è tutt’altra cosa. E’ quel colpo il cui rumore non lascia margini di dubbio. La pallina rimbalza nel punto esatto del piatto corde e restituisce un suono pieno, sordo, rotondo, senza sbavature.

Quel suono è la musica del tennista.

Ascoltate i colpi di Raphael Nadal, uno che di regole del tennis ne ha sovvertite parecchie. Vi sfido a trovare un solo colpo di Rafa che non sia perfetto.

Perché la tecnica non è tutto, il tennis è anche musica.

Storia di Giovanni nei chiaroscuri di personalità

Ogni incontro della vita ci lascia qualcosa, a volte segni profondi, a volte solo tracce.

Giovanni non l’ho mai incontrato e di lui conosco solo le parole, la voce vibrante ed il volto sorridente che compare nel retro del suo primo romanzo. Quanto basta per affermare con certezza che la scia del suo entusiasmo mi ha contagiata, posandosi nel mio pc e nelle mie riflessioni di scrittrice ipotetica e provvisoria.

Perché Giovanni l’entusiasmo lo incarna, lo interpreta, lo trasmette. E in questi tempi di sconforto, una persona operosa che ha una visione positiva delle cose, è umanità rara che va apprezzata incondizionatamente.

Giovanni è un giovane psicologo dalla mente duttile che investe le sue energie in numerosi impegni quotidiani. Si diletta nel giornalismo radiofonico e nei blog letterari. Ed è anche uno scrittore. Attività apparentemente lontane fra loro, ma indissolubilmente legate dalla prospettiva indagatrice che contraddistingue questo ragazzo romano dalle influenze romagnole.

Giovanni è un esploratore dell’animo umano e basta leggere il suo primo romanzo  “Selvaggia i Chiaroscuri di personalità” per capire che lo psicologo, lo scrittore ed il giornalista sono un’unica persona. Selvaggia racconta di percorsi giovanili di ricerca del sé, di confusione post adolescenziale e di traumi della psiche. E’ un romanzo dal linguaggio dinamico e colloquiale, un romanzo parlato che trova la sua identità nei dialoghi diretti e veritieri.

Giovanni è uno scrittore con gli altri scrittori solidale.

E’ questo il suo segno profondo.

Selvaggia

http://giovannigarufibozza.wordpress.com/

Ogni giorno, ogni ora

Sarà che la lingua italiana è un melodioso equilibrio di consecutio temporum, sarà che è piacevole leggere periodi armonici che si imprigionano fra loro senza appesantire i concetti, sarà che la lingua croata è più dura di quella italiana, insomma, di fronte ad un romanzo in cui le frasi subordinate quasi non esistono e la maggior parte dei periodi non supera una riga, si rimane, come minimo, titubanti.

Ma i dubbi sulla piacevolezza della lettura, così come sono venuti, ben presto se ne vanno. Perché se all’inizio si pensa che uno stile così scarno tolga vigore alla narrazione, più si prosegue nel racconto più si realizza che è proprio quello stile asciutto a consolidare la capacità introspettiva e a favorire l’immedesimazione nei personaggi.

La forza di Nataša Dragnić sta proprio nel suo linguaggio spigoloso, essenziale, quasi tronco. Un lessico spezzato che permettere al lettore di entrare nei pensieri dei protagonisti facendoli sentire propri.

Il fascino di ogni giorno, ogni ora è nel modo in cui è scritto, più che nella trama. Perché la storia è semplice: Luka e Dora si conoscono da bambini e si amano, senza potersi amare, per tutta la vita. Lui farà nobili sacrifici, prenderà decisioni scellerate e vivrà nella perenne incapacità di vivere la propria esistenza. Lei cercherà inutilmente rifugio su famosi palcoscenici teatrali tentando di vivere in improbabili mondi paralleli.

C’è un connubio di ambientazioni croate, di evocazioni francesi e di parole spagnole in questo romanzo. C’è Makraska e c’è Parigi. E ci sono i versi di Pablo Neruda che la Dragnić ha preso in prestito per dare il titolo al libro e che accompagnano Dora e Luka per tutta la vita.

E anche oltre.

Perché si sa che solo gli amori impossibili sono destinati a non finire mai.

Ogni giorno, ogni ora