Storia di Anna che vorrebbe essere un gatto

Alla teoria della reincarnazione Anna non ha mai creduto. Non prova la sensazione di aver abitato corpi diversi in epoche remote e dubita che altre dimensioni la attendano dopo la morte. E’ più che altro un desiderio di trasmigrazione quello che prova Anna, la tangibile e assurda fantasticheria di trasformarsi in un felino, in un bel gatto elegante dalla coda lunga e dritta che cammina con sufficienza sotto i mobili di casa. Un classico micio domestico, a pelo corto e morbido, uno di quei trovatelli che la gente raccoglie lungo i fossi dopo averne captato l’insistente miagolio.

Dei gatti Anna invidia tutto: la pelliccia che regola la temperatura, le vibrisse nervose, i cuscinetti sotto le zampe, le orecchie a punta che hanno il potere di parlare.

Perché se Anna avesse la pelliccia, non avrebbe bisogno di avvolgersi in abbondanti strati di lana grezza ogni volta che il freddo umido dei pensieri negativi la attraversa con ferocia.

Se possedesse lunghi baffi recettori, potrebbe intercettare gli attacchi violenti della sua stessa emotività, riuscirebbe a schivarli e si risparmierebbe quelle interminabili giornate d’angoscia che ormai non tollera più.

Se in qualche parte del corpo Anna fosse dotata di soffici cuscinetti attutenti, eviterebbe di farsi male ogni volta che qualcuno le manca di rispetto trattandola senza riguardo.

E quelle splendide orecchie di cartilagine, Anna le userebbe al posto delle parole, che basterebbe un cenno in su o in giù per far capire a chi le sta intorno quando non è il caso di bussare, quando è ora di farle posto sulla poltrona, quando ha voglia di sonnecchiare sul divano con una mano snodata che le solletica il mento.

Ma quel che Anna invidia più di tutto è l’indipendenza connaturata nei gatti, il loro essere liberi da legami e condizionamenti, la capacità inumana di farsi scivolare addosso ogni cosa, dimenticare tutto, vivere solo l’immediato ed infischiarsene delle conseguenze.

Se Anna fosse un gatto, non avrebbe bisogno di difendersi.

Anna che vuole essere Gatto

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Il contrario di uno su un treno per Lisbona

Il contrario di uno

Credo alle coincidenze, agli incroci accidentali di avvenimenti, ai fatti che capitano per caso e che, solo legandosi insieme, trovano il loro significato.

I fili che si intrecciano nella mia coincidenza di questi giorni sono tanti: due date partigiane, un libro, un invito su un treno, un film. Tutto in pochi giorni, tutto legato, tutto coincidente.

E’ quasi una storia, con un prologo, uno lasso temporale, un seguito, un finale.

Il prologo è un post di un amico di blog pubblicato il 27 febbraio, giorno della Liberazione del mio paese, l’unico comune italiano che ancora commemora con una giornata di festa cittadina il ricordo della propria battaglia partigiana lasciando in eredità alle giovani generazioni il significato del sacrificio della propria Resistenza. In quella data per me così importante, l’amico di blog invitava metaforicamente gli appassionati di Erri de Luca a salire su un treno per leggere i suoi libri. Reduce dalla illuminante lettura di Non ora non qui, accettai di buon grado l’invito simbolico, chiedendo consiglio su un titolo. La risposta fu: Il contrario di uno.

Il lasso temporale è quello che dal 27 febbraio arriva a questi giorni. Non avendo tempo di passare in libreria per comprare Il contrario di uno, ho lasciato scorrere le settimane, poi, stanca di non averlo, l’ho ordinato sul web. L’ho ricevuto pochi giorni fa e appena me lo sono ritrovata fra le mani mi sono ricordata che dovevo leggerlo su un treno immaginario. Così ho fatto, seduta nel vagone di Erri, mi sono immersa nei suoi racconti di ricerca esistenziale, di lotta politica e di libertà, scritti con la peculiare prosa, intima ed essenziale, di chi è capace di cesellare frasi conferendo un nuovo significato alle parole.

Il seguito è di due sere fa quando, in cerca di un buon film, capito per caso su Il treno di notte per Lisbona dove il protagonista Raimond, un professore svizzero di lingue antiche, salva dal suicidio la nipote del boia di Lisbona Rui Luis Mendes, torturatore di giovani resistenti ai tempi del regime di Salazar. Nel soprabito della ragazza il professore trova un libro scritto nel 1975 da Amadeu Prado, membro della resistenza portoghese che perse la vita opponendosi al regime dittatoriale. Nel libro c’è un biglietto di un treno, partenza Berna, destinazione Lisbona. Non ci pensa due volte Raimond, vuole conoscere la storia di quel libro, vuole sapere di più sulla rivoluzione dei garofani. Sale sul treno e, mentre dal finestrino l’Europa occidentale gli scorre accanto, si immerge nella lettura di Um ourives das palavras – L’orafo delle parole. Sobbalzo e penso subito ad Erri, il cesellatore di frasi, l’orafo del linguaggio più abile che abbia mai letto. D’ora in poi lo chiamerò così, Erri l’orafo delle parole.

Il finale è l’alba di stamane quando ho girato l’ultima pagina de Il contrario di uno. Stamane, 25 aprile, giorno della Liberazione, commemorazione della Resistenza, festa dell’Italia libera.

Due date partigiane, un libro, un invito su un treno, un film: i miei fili intrecciati e coincidenti che interpretano e rinnovano il significato della Libertà.

 

http://orearovescio.wordpress.com/2014/02/27/a-proposito-di-erri/

 

 

Da Shanghai a Montecarlo passando per Losanna

E’ la domenica dei numeri due contro i numeri uno, la Pasqua delle lese maestà e degli allievi che superano i maestri.

Il Gran Premio di Shanghai ha confermato che questa nuova Formula 1 premia lo spettacolo, induce i piloti ad una competizione vera, spinge a rincorse e sorpassi, invita a violare gli ordini di scuderia. Su un circuito ardito, fatto di salite, discese e di curve infinite, dove il marble a fine gara ricopre l’asfalto di una viscida patina gommosa, Nico Rosberg, senza l’ausilio della telemetria andatagli in panne, ha rincorso Lewis Hamilton, risalendo la griglia di partenza e riuscendo a salirgli accanto sul podio. Daniel Ricciardo, il pilota dal sorriso contagioso, ha osato sfidare sua maestà Sebastian Vettel che, in crisi di velocità, si è messo a fare i capricci. Gli sono costati il quarto posto e 22 secondi di distacco: una lezione che non dimenticherà. Fra le Mercedes e le Red Bull ci sta Fernando, in gara con se stesso, una gara d’intelligenza, un terzo posto che sa di ossigeno per i tifosi e per il team Ferrari.

A Montecarlo, nel Master 1000 che apre la stagione tennistica sulla terra rossa, Stanislas Wawrinka ha compiuto l’impresa. Nella sfida tutta svizzera del torneo più chic dell’Atp world tour ha sconfitto Roger Federer, suo mentore, sua fonte di ispirazione, suo compagno di Davis, suo amico, suo esempio di vita, nonché miglior tennista di tutti i tempi. Ce n’era abbastanza per soccombere psicologicamente in pochi game e invece Stanislas da Losanna ha combattuto con tenacia e ha conquistato, con rispetto e deferenza, il suo primo Master 1000 in carriera.

Una Pasqua così: da Shanghai a Montecarlo passando per Losanna.

Montecarlo

 

Buon viaggio Gabo

Gabo

Fra le pagine di Cent’anni di solitudine conservo vecchi ritagli di giornale che raccontano la vita di Gabriel Garcia Márquez. Li ho stesi sul pavimento e, commossa, li ho riletti tutti, profondamente rapita dal suo ineguagliabile talento letterario.

La seconda volta che lessi Cent’anni mi cimentai nella ricostruzione dell’albero genealogico della famiglia Buendía, una paginetta a quadretti coi miei lievi tratti a matita che mi servì come bussola quando lo rilessi la terza volta e che ormai conoscevo a memoria quando lo rilessi la quarta, pochi mesi fa.

E’ il mio libro della vita.

Poter leggere Márquez è una fortuna; un vero privilegio farci ammaliare dall’incanto, dallo splendore, dalla perfezione dei suoi romanzi.

Buon viaggio Gabo, ci hai lasciato tutto di te, ci hai donato un patrimonio letterario sconfinato, ci hai regalato la letteratura.

 

Storia ordinaria di incomunicabilità

E’ una piccola Opel, di un modello vetusto che vendevano vent’anni fa. Ha la vernice rossa metallizzata, opacizzata dalle intemperie e dallo scorrere del tempo. Ferma, nel più grande parcheggio scambiatore della città, ospita una coppia; che siano amici, fratelli o fidanzati non saprei dirlo. Parcheggio nello stallo di fronte alla Opel e la scena che catturo dentro l’abitacolo mi colpisce.

Lei, giovanissima, la patente l’ha presa da poco. Siede al posto dell’autista, ha le ginocchia tirate su, stanche, poggiate mollemente sul volante. Il cappuccio di una felpa nera le copre la testa. Qualche ricciolo arruffato, sfuggito alla barriera protettiva del copricapo, le contorna il viso i cui lineamenti, di per sé dolci, sono resi duri da un’espressione rabbuiata e torva. Due sottili fili bianchi le scendono dalle orecchie, sta ascoltando l’Ipod e muove ritmicamente il capo fissando il vuoto davanti a sé.

Lui, seduto alla sua destra, ha qualche anno in più. Uno di quei bei visi spalancati che hanno i ragazzi seri di oggi, la barbetta, il capello scomposto, una giacchetta verde dal taglio sportivo. Cerca di comunicare con lei, parla velocemente, gesticola, si agita, apre i palmi delle mani e li muove rapidamente in avanti, come a percorrere due binari paralleli. Forse vuole indicarle una via.

Lei non parla, sono la sua postura sgarbata e la sua ricercata indifferenza a darle voce.
Lui si prodiga, fiducioso di convincerla.
Lei lo sfida, ignorandolo.

Mi viene voglia di prenderla per le spalle e di scuoterla.
Mi viene voglia di dirle: “Metti da parte il tuo orgoglio e ascolta questo bravo ragazzo! Se continui ad ignorarlo, lo perderai.”

Ma intervenire non posso, scendo dall’auto e mi avvio per la mia strada.

Parcheggio

 

 

Dance dance dance

Dance dance

Non me ne vogliano quelli che Murakami non lo sopportano, non sbuffino quelli che non lo conoscono e non si spazientiscano quelli che lo apprezzano ma sono stanchi di vederlo comparire fra le righeorizzontali.

Il fatto è che Dance dance dance l’ho letto e ne devo per forza raccontare perché questo romanzo nippo-hawaiano, edito quasi trent’anni fa, contiene lezioni di scrittura che non si possono ignorare.

Reggere cinquecento pagine di narrazione in prima persona senza rivelare il nome dell’io narrante vuol dire saper scrivere. Inventare una trama convincente capace di coniugare il romanzo psicologico, il componimento immaginifico e l’intreccio giallo alla Dieci piccoli indiani vuol dire aver talento.

Un giornalista di articoli redazionali, un attore famoso ma infelice, una tredicenne sensitiva e silenziosa, un uomo pecora. E ancora: una fotografa stordita, una prostituta incantevole, un uomo senza un braccio, una receptionist di un Hotel che si perde nell’oscurità.

Gotanda, Yuki, Ame, Makimura, Yumiyoshi, Kiki, Mei.

E’ come se Haruki possedesse un immenso cilindro contenente i più assurdi e disparati personaggi. Li estrae a sorte, li combina fra loro e crea meraviglie.

L’universo creativo di Murakami non ha confini. Non c’è spazio, non c’è tempo, non c’è dimensione che possa imbrigliare l’immensa capacità narrativa di uno scrittore dall’immaginazione infinita.
Sempre fedele a sé stesso, sempre sorprendentemente innovativo.

Era stato un sogno?
Si, forse era stato un sogno.
Ma chi può dirlo?

 

Io confesso

E’ un giovedì nato stanco, nel mezzo di una settimana infinita fatta di ore dense che si accavallano fino a tarda sera.

Mi sveglio col buio e mi convinco che per iniziare una giornata appena sbocciata e già stremata c’è bisogno di una musica corale, di un incipit d’orchestra con tanto di fiati, archi e percussioni.

Devo trovare una canzone contemporanea, evocativa della miglior tradizione melodica italiana. Cerco un testo provocatorio che suoni come una sfida a questo fiacco giovedì. Vorrei una voce maschile, profonda e possente che infonda vigore alle ore che ho davanti. E, magari, una dissonanza femminile che riempia di note acuminate gli impegni che si rincorreranno.

Per una canzone così, penso, posso anche rinunciare alla mia prima mezz’ora di sacro silenzio mattutino.

Rovisto nella mente in cerca di una melodia adatta ed inizio ad udire i violoncelli, le trombe, i tamburi. Mi metto in ascolto di un coro anni settanta, sognante ed ovattato, della voce intensa di Mauro Ermanno Giovanardi, degli acuti lirici di Susanna Rigacci.

Ho trovato quel che cercavo: La Crus – Io confesso

Ma chiamerai il mio nome
Lo so che lo farai
Non c’è nessun altro al mondo
Così vicino a te 
Che e così uguale a me

 

Manama, un tappeto di velluto

Ai margini della pista c’è un tappeto di velluto colorato. E’ una strana superficie, sembra sabbia compattata, una liscio velour che costeggia l’intero tracciato di Manama. Ha i colori tenui delle palme e dei cammelli, il rosso e l’arancione del tramonto nel deserto, le sfumature blu del mare che lambisce le trentatré isole del Bahrain.

E’ la prima volta che nel Bahrain si corre di notte e il fascino delle vetture che brillano nel buio di Manama non solo oscura l’esotismo di Abu Dhabi, ma supera persino la magia di Singapore. Un rigore incantato aleggia sulla gara: c’è ordine, c’è determinazione, c’è sicurezza. Quella delle Mercedes i cui colori argentati esaltano lo charme di questa lunga notte mediorientale.

Che le Mercedes domineranno il mondiale lo abbiamo già capito. Che Nico Rosberg e Lewis Hamilton non siano allegri compari, ma rivali irriducibili ce l’hanno dimostrato oggi, regalandoci un duello vero, momenti di gara esaltanti, tentativi di sorpasso al limite, competizione pura.

C’è chi attribuisce la supremazia delle Mercedes alle nuove regole. Io non sono in grado di dirlo, non ho abbastanza competenze tecniche per affermare con certezza quale delle novità introdotte stia alterando l’equilibrio fra i team. Una cosa però, a istinto e a logica, mi sento di affermarla. Trovo assurdo che nel campionato automobilistico in cui si raggiungono le maggiori velocità su pista, si debba controllare e limitare il consumo di carburante. La F1 “economy”, come qualcuno l’ha definita, è un controsenso inspiegabile.

Il novecentesimo Gran Premio della storia della Formula 1 se l’è aggiudicato Lewis, Nico dietro di lui, terzo il messicano Perez.

E le Ferrari, come al solito, stanno a guardare. Magari col naso all’insù, magari quei fuochi artificiali che a Gran Premio finito illuminano la notte di Manama. Ironia vuole che siano fuochi rossi, luminosi e scoppiettanti, che di argento hanno ben poco.
Devono aver sbagliato colore quando li hanno ordinati.

Formula One World Championship

Storia di notte nella luce di un lampione

Un lampione illumina la strada all’incrocio fra due vie. E’ quasi campagna, filari di vite tutt’intorno che non riesco a vedere perché è buio già da ore.

Sono in due, lei più alta, lui più basso e si tengono per mano. Me li vedo comparire davanti all’improvviso, uno strano riverbero mi abbaglia, d’istinto freno e cambio traiettoria per non investirli. Si muovono lentamente, chiacchierano e sorridono, neanche si sono accorti che stavano per essere investiti.

Con l’automobile quasi ferma posso osservarli attentamente, la luce del lampione illumina le loro sagome che oltrepasso al rallentatore per coglierne i particolari. Hanno i tratti orientali, non saprei dire se cinesi, vietnamiti o di quale altro paese dell’estremo oriente. Li immagino fratelli, lei che non ha ancora vent’anni, lui che i dieci li ha compiuti da poco. Capelli scuri e lisci, visi sagomati, esili figure avvolte in due giubbetti leggeri. L’andatura è ricurva, il passo comodo, l’incedere flemmatico, in netto contrasto con le mie pulsazioni, accelerate per lo spavento preso.

Cerco i loro occhi e incrocio lo sguardo di entrambi, muovono la testa all’unisono lanciandomi occhiate rassicuranti che sembrano dire: “Stiamo bene, non è successo niente, perché ti preoccupi?”

Quegli sguardi mi bastano, ingrano la seconda, poi la terza e riprendo la mia strada. Poche centinaia di metri e sento la tensione defluire, lo spavento è passato. Solo dopo qualche minuto realizzo un particolare macroscopico sfuggitomi quando avevo davanti agli occhi i due ragazzi, ovvero l’origine di quello strano bagliore. Guardavo la mano sinistra della ragazza che aveva le dita intrecciate con quelle del fratello, un gesto così bello da impedirmi di focalizzare l’attenzione sulla mano destra, saldamente avvinghiata al cerchione di un pneumatico, portato sulla spalla a mo’ di borsetta. Un cerchione laminato, opaco e freddo che ho supposto tagliente per quelle dita sottili.

Ripenso al buio della campagna, al lampione che illumina le sagome, ai passi rallentati, agli sguardi rassicuranti, al battito cardiaco, al cerchione del pneumatico. E’ una scena singolare, forse un po’ surreale, degna di un romanzo di Haruki.

E così, fra la stanchezza che attanaglia e l’adrenalina che scende, formulo un pensiero assurdo: sono forse finita dentro un libro di Murakami?

lampione