Feste con gli amici 3

È un appuntamento fisso, ormai.
Loro aspettano me, che dopo averli acquistati appena usciti, aspetto con pazienza il tempo giusto per leggerli.

Malinconico che dà sfogo al bisogno di ridere.
Bordelli che ammanta ogni cosa di malinconia.
Monterossi che, in questo suo sesto, si fa un po’ controparte.

De Silva così istrionico da non deludere mai.
Vichi che ha il tepore del fuoco acceso nel camino.
Robecchi dall’ironia tagliente come lama di spada.

Tre personaggi, tre autori.
Le mie feste con gli amici.

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Voglio guardare

Molto lontano da quel che sembra, non c’è barlume di erotismo in Voglio guardare.
Dal nulla emergono atrocità senza spiegazioni messe lì da De Silva solo per farcele vedere.
Guardale senza averne cognizione fa quasi più paura che provare a trovarci un senso.

Forse mancano dei pezzi lungo il cammino della storia, forse qualche anello della catena è andato smarrito, perché più che a un racconto questo libro somiglia a una fotografia.
Un fermo immagine di un’evidenza.
Qualcosa che così è e che diversamente non può essere.

Un De Silva inedito che anche nel descrivere una lucida ferocia a suo modo lascia il segno.

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La donna di scorta

Spezzoni di vite si intrecciano ne “La donna di scorta” con frammenti ribaltati rispetto al solito gioco delle parti.
Una storia come tante, che va come deve andare e finisce come deve finire.
E che, anche se non sorprende, cattura.
Fra cupezze mascherate, gioie nascoste, ripensamenti altalenanti, il libro vola.

Quasi si legge da solo.

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Tutti in fila

Tutti in fila, sì, perché il desiderio di ridere prevale.
Uno dietro l’altro, diversi fra loro ma simili in fondo, con quell’essere presenze costanti, a ritmo cadenzato, ché leggere, con questi qui, è come farsi un regalo.
In successione casuale vien quasi voglia di paragonarli, Salvo, Vincenzo e Carlo, e nel metterli a fianco ritrovare in loro quel filo comune di umanità sottesa.
Un crescendo di stile, Camilleri, De Silva, Robecchi, in un modo così avvezzo, ormai, da esser confidenza.
È stato il tempo delle pagine note, lette in sequenza, quasi come un bisogno.
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Mancarsi

Mancarsi

Immaginavo una storia di lontananze, di costrizioni, forse di addii.
Pensavo all’orgoglio, al non voler cedere, al non saper perdonare perché Mancarsi è un verbo riflessivo che evoca l’assenza, il vuoto che prende forma nella distanza, quella malinconia insidiosa che corrode lentamente nei postumi di una separazione.

Un titolo fuorviante che mi ha lasciato intendere quel che non è, un piccolo inganno rovesciato nel momento in cui ho scoperto cosa realmente c’è in quel Mancarsi e, quasi come un’illuminazione, mi sono resa conto che il vero significato mi piaceva ancor di più di ciò che avevo inizialmente immaginato. Continua a leggere

Sono contrario alle emozioni

Con un titolo così provocatorio mi aspettavo e pregustavo l’apoteosi del Malinconico style. E invece i monologhi dell’avvocato Vincenzo Malinconico privati dell’evolversi della sua vita e del nugolo di personaggi che lo circondano, non mi hanno convinta, lo ammetto.

Malinconico è dissacrante e consolatorio – come lo definisce la mia amica Elisa – anche per tutto ciò che gli ruota intorno. Le sue idee sui tronchi di cono esistenziali, su Raffaella Carrà come icona pop ante litteram, sulle empatie moleste delle salumaie napoletane, risultano monche senza il contorno della figlia Alagia, dell’ex moglie psicologa, dello sgherro della camorra che lo segue come un’ombra.

L’ho letto con piacere, ma alla fine mi è mancato qualcosa. Ho avvertito quel vago senso di insoddisfazione che mi prende quando mi aspetto di ritrovare un intero mondo che mi era piaciuto e, al suo posto, ne trovo solo un frammento.

Però c’è un passaggio, un capitolo lungo una facciata, in cui Malinconico descrive le proprie chiuse, il proprio modo di ridurre ad una battuta elementare la complessità del discorso che le precede.
E’ Diego De Silva che parla, è l’autore che ci svela una sua tecnica di scrittura, quella del doppio registro in cui coabitano l’anima intellettuale che si interroga e quella operaia che agisce.

Poco più di venti righe che valgono il libro. Allora mettiamola così: cercavo l’universo di Malinconico e ho trovato un’ingegnosa lezione di scrittura.

Sono abbastanza vecchio da aver capito che non ci sono problemi risolvibili. Se no non si spiegherebbe com’è che non ho mai risolto un problema in vita mia.

Sono contrario alle emozioni

Non avevo capito niente

Diego De Silva è la mia scoperta dell’estate. Scrive e pubblica da diversi anni, ma io l’ho incontrato solo in questi giorni, curiosando distrattamente sugli scaffali della libreria di un grande magazzino. Ho preso in mano Non avevo capito niente e mi si è aperto il disincantato mondo partenopeo di De Silva.

Protagonista è Vincenzo Malinconico, avvocato civilista che sopravvive malamente alla sua esistenza di marito separato ancora innamorato della ex, alla sue molteplici dimensioni di padre anomalo in una famiglia allargata, di professionista con lo studio precario in coabitazione con strani animali e di essere umano profondamente bisognoso d’amore. E il bello è che non c’è niente di caricaturale in questo personaggio, anzi c’è molta autenticità e naturalezza.

Finalmente un personaggio nuovo, finalmente un linguaggio diretto senza essere banale, finalmente un libro divertente!

Malinconico è un napoletano di indole filosofica. Ha il dono di leggere le cose della vita, anche quelle più spicciole, con una limpidezza, un acume ed un’ironia che ci lasciano sorpresi e, spesso, ci fanno ridere di gusto. Malgrado i tratti di amarezza e nonostante le dure consapevolezze, con Malinconico si ride. Di lui, delle sue strambe avventure, ma anche di noi perché le vite, in fondo, si somigliano.

Non avevo capito niente è scritto al presente in prima persona, accorgimento usato da tanti scrittori per non doversi avventurare nelle subordinate, nella consecutio, nelle tante insidie del nostro lessico; insomma per avere vita facile aggirando la complessa sintassi della lingua italiana. In questo caso, però, non credo che De Silva abbia cercato un espediente, anzi, Malinconico non può che parlare in prima persona, non deve avere filtri, il suo pensiero deve emergere così com’è, pulito e nudo nelle sue stesse parole.

Questo dice Malinconico dell’amore:

L’amore, se posso dire come la penso, è una malattia della dignità. Agisce per picchi e inabissamenti. Compra e vende. La riconosci subito. Ha dei sintomi, – come dire, – dei sintomi che non ti sbagli.

Inutile dire che ho già acquistato il sequel.

Non avevo capito niente1