La fine

Io Nesli nemmeno sapevo chi fosse. Non conosco, non capisco e raramente apprezzo il mondo dei rapper e mai avrei immaginato che un beatmaker potesse scrivere uno dei più bei testi italiani di questi ultimi anni.

Quando ho scoperto che La fine, cantata da Tiziano Ferro, l’ha scritta il fratello minore di Fabri Fibra, mi sono detta che è bello cambiare idea se qualcuno mi sorprende positivamente. Anche se è un rapper con un passato di droghe, vandalismi e riformatorio. La Fine Nesli non l’ha solo scritta, l’ha anche cantata e su youtube è stata vista dodici milioni di volte. Si confessa questo ragazzo dal viso enigmatico, ricordi di un’esistenza insicura ed instabile trasformati in versi per esorcizzare la paura di sé e delle proprie azioni.

Io non lo so chi sono e mi spaventa scoprirlo
Guardo il mio volto allo specchio
ma non saprei disegnarlo

Possiedono, le parole di questa canzone, una drammatica consapevolezza delle colpe, dell’inutilità di chiedere scusa a chi è stato ferito e deluso, dei contraccolpi profondi causati dalle azioni violente. Però Nesli è un combattente e non smarrisce la speranza di potersi rialzare e di potercela fare a dispetto del mondo. Senza autocommiserazione,  senza piangersi addosso, senza falsi paraventi.

Questa vita – ha detto mia madre- figlio mio va vissuta
Questa vita non guarda in faccia
e in faccia al massimo sputa

Mi piacciono i versi di Nesli, parole di lotta, fragilità che anela al vigore, durezza che si pente di essere tale.

I due video, quello di Nesli e quello di Tiziano, guardati in sequenza, lasciano dietro una scia di tristezza. Nesli, con la voce secca, ha un ché di compassato. Tiziano, con le corde magnificamente morbide, lo trovo straziante.

Sangue in sala da pranzo

Non avevo mai letto romanzi d’avanguardia e credo che non ne leggerò più. Sangue in sala da pranzo di Gertrude Stein mi è bastato per capire che non sono predisposta per le avanguardie.

Mi piacciono gli scrittori che osano, che si cimentano con esperimenti linguistici arditi. Mi piacciono le allitterazioni e i ritmi scanditi da frasi ripetitive e martellanti. Mi piacciono persino le trame doppiamente intrecciate e difficilmente comprensibili. Ma la letteratura d’avanguardia no, non la capisco proprio. Un conto è avere l’audacia di sfidare le regole della grammatica e della sintassi sperimentando nuove forme narrative, altro è scrivere frasi sconclusionate prive di soggetti, verbi o complementi.

Sangue in sala da pranzo dovrebbe essere un romanzo giallo ispirato a delitti realmente commessi in due villaggi della valle del Reno negli anni trenta del secolo scorso. Uso il condizionale perché quando un romanzo è infarcito di frasi di questo tipo, risulta difficile comprenderne la trama:

Che possa ella essere una graziosa molti quando ella usa loro non l’hanno saputo, dove erano quando erano soli.

C’era una volta essi cominciarono è cominciato.

Pensa bene a nessun pericolo che essi verranno o andranno via o nessuna differenza con cui essi durano o nessun conto per cui in cui sistemare.

Ammetto la mia totale ignoranza in fatto di movimenti artistici e letterari francesi dei primi decenni del novecento. Se ne sapessi di più, forse, potrei capire questo romanzo. E sarò anche antica e un poco conservatrice, ma in fatto di lingua non riesco a concepire lo smembramento del senso delle frasi e, quindi, l’unica spiegazione che riesco a darmi è che Gertrude Stein, questa singolare scrittrice nata in America nel secolo scorso e trapiantata a Parigi in età adulta, avesse semplicemente l’obiettivo di provocare.

E ci è riuscita, almeno con me. Perché se di fronte ad un quadro astratto sono capace di emozionarmi e di cogliere mille significati, di fronte ad un romanzo astruso provo solo delusione ed un briciolo di rabbia. Unire le parole dando loro nuovi significati rende uno scrittore degno di essere definito tale. Unirle mettendole in sequenza alla rinfusa è solo una presa in giro del lettore.

Sangue in sala da pranzo

Nico, the pole man

Ha la faccia da bravo ragazzo Nico Rosberg, uno di quei visi un po’ squadrati, pieni e luminosi che mettono di buon umore. L’ho sempre considerato un pilota talentuoso ma sfortunato, capitato nelle scuderie giuste ma nelle annate sbagliate. Nel 2010, libero dal contratto con la Williams, speravo che la Ferrari lo ingaggiasse come secondo di Alonso, una sorta di scommessa tedesca post era Schumacher. E invece se lo accaparrò la Mercedes, affiancandolo proprio a Michael Schumacher, illustre ed ingombrante connazionale.

A guardare il viso quasi angelico di Nico non si direbbe che è uno spericolato pilota con la velocità pura nel sangue. Uno che, se è pur vero che fatica a reggere la lunghezza della gara, sul giro secco è capace di polverizzare qualsiasi avversario, persino il re delle pole Lewis Hamilton, suo compagno di scuderia.

Da molti è definito come l’eterna promessa destinata a non sbocciare mai. Oggi, forse, qualcuno si ricrederà perché a Montecarlo Nico ha infilato la terza pole position consecutiva dimostrando di essere all’altezza del padre Keke, campione degli anni ottanta dalla guida aggressiva che proprio nel Gran Premio del Principato dava il meglio si sé, esaltando la propria sconsideratezza nel circuito cittadino più pericoloso ed insidioso di tutto il mondiale.

La genetica, a volte, è strana. Keke, con la sua lunga chioma e l’aria da maledetto, sfoderava una sfrontatezza che infastidiva avversari e pubblico. Nico, con il volto rassicurante e gli occhi placidi, ha uno stile di guida velocissimo ma corretto e amato da tutti perché rispettoso delle regole. Sangue dello stesso sangue, eppure diversi nell’aspetto e nella condotta. Eppure due grandi campioni.

A Nico manca solo una pole per eguagliare il record del padre.

Magari in Canada, fra quindici giorni.

Magari dedicandola a Keke.

NicoKeke

Storia di Patty, vernice spray

Ad un primo sguardo non si direbbe che Patty è una ragazza.

Coi lunghi capelli ondulati raccolti in una coda bassa, le dita magre e nodose, i lineamenti duri e la pelle sbiadita, ha più l’aria di un maschiaccio arrabbiato. Vestita di grigio scuro se ne sta china davanti ad una vetrina di Via delle Muratte circondata da pezzi di cartone, piccole spatole e decine di policrome bombolette spray.

Non è l’unica street artist del centro di Roma che crea quadri nebulizzando vernice su lucidi cartonici neri. Ce ne sono tanti che usano gli spray, quasi tutti uomini, ciarlieri e accattivanti pur di procacciarsi clienti.

Patty è diversa. Non alza mai lo sguardo su chi la osserva, tiene il broncio fisso sulle proprie mani che incessantemente danno vita a squarci lunari della Roma antica. Sembra non curarsi della gente che le sta intorno, seduta sulle proprie ginocchia, rivolge lo sguardo a terra spruzzando senza sosta la densa vernice tossica che le si polverizza sotto il naso. Gli effluvi si diffondo nell’aria e l’odore acre e pungente delle bombolette si mescola con la polvere filtrata dai raggi del sole.

Patty non sorride, nemmeno quando le allunghi i dieci euro per pagarle il quadro. Li prende e li intasca velocemente, guardandoti negli occhi per un istante, con lo sguardo timido e torvo di chi sente solo il bisogno di creare e non prova alcun desiderio di socializzare.

Come tutti i veri artisti.

Patty

Righe agli Internazionali

Imponenti statue di discoboli e maratoneti circondano il più bel campo da tennis del mondo. Infossato come un anfiteatro classico, lo stadio Nicola Pietrangeli ha la terra rossa più suggestiva di tutto il circuito ATP.

Giocare qui, dicono i più grandi tennisti del mondo, è un’emozione unica, è come fare un balzo nella storia, immersi nella magia di Roma, la città senza tempo.

Pini marittimi e morbidi prati incorniciano il complesso del Foro Italico dove ha sede un esclusivo circolo di tennis che nei giorni degli Internazionali diventa luogo per tutti, ritrovo a prezzi popolari per gli appassionati di questo sport provenienti da ogni angolo d’Italia.

Quando avevo undici anni, l’età che ha ora mio figlio maggiore, avrei dato qualsiasi cosa per poter assistere a questo torneo. Immaginavo i miei idoli, Ivan Lendl e Mats Wilander affrontarsi su una superficie per loro ostica, quella che Andre Agassi ha sempre definito vischioso pantano.

Oggi sono qui con i miei ragazzi, desiderosi quanto me di vedere Federer e Nadal, la Errani e la Williams.

Insieme agli Internazionali.

Stadio Pietrangeli

España

Viene voglia di essere spagnoli in questa domenica di maggio in cui centinaia di bandiere rojigualda sventolano sul circuito di Barcellona e in cui si ode un unico coro inneggiante Rafa sulla terra rossa di Madrid. Una domenica di sole che decreta in via definitiva Fernando Alonso e Rafael Nadal impareggiabili campioni mondiali, talenti superlativi nella loro terra natia. Finalmente una domenica di festa per un Paese sanguigno e tribolato quasi quanto il nostro.

A Barcellona Fernando, quinto in griglia di partenza, ha dominato il Gran premio di casa con una determinazione sbalorditiva. Una vittoria voluta più di ogni altra, con un sorpasso stratosferico al primo giro e una strategia di gara finalmente perfetta.

Li vorrei tutti così i podi di questo mondiale 2013. Fernando in vetta, iceman Kimi al suo fianco e Felipe a chiudere la fila. Il passato e il presente della Ferrari che abbracciano il team manager Stefano Domenicali completamenti grondanti di bollicine vittoriose.

Sul campo centrale di Madrid Rafa ha impartito allo svizzero Wawrinka una lezione di tennis su terra battuta. Nella sua quinta finale consecutiva dall’inizio dell’anno, ha dimostrato che, se non c’è Nole sul suo cammino, può arrivare ovunque, scalare la classifica mondiale e risalire dal quel penalizzante quinto posto verso cui è scivolato dopo i problemi fisici dello scorso anno. I numeri parlano per lui: dopo sette mesi fuori dai campi, ha giocato sette tornei e cinque finali di cui due vinte. Sentirlo ringraziare il pubblico della sua capitale con quella sciolta parlata maiorchina fa quasi commuovere perché Rafa è tornato e il tennis ne aveva bisogno.

Fernando e Rafa, España!

Berdych, il destino nelle mani

Non mi è mai piaciuto Tomas Berdych, tennista ceco, sesto al mondo nel ranking ATP. E’ un picchiatore della palla, uno che pensa solo al proprio gioco, che non attua strategie né possiede finezze, che crede solo nella propria forza fisica e si concentra su come sfruttarla al meglio.

Dal mio osservatorio personale, che di tecnico ha poco e di empatico quasi tutto, ho sempre considerato Berdych un tennista scarsamente in sintonia col campo. Uno molto forte, ma un po’ legnoso, privo di scioltezza, a tratti rigido, un atleta imponente e poco flessibile.

Insomma Berdych non rientra fra i miei tennisti preferiti ma, leggendo una sua recente intervista, mi sono resa conto che l’ho sempre sottovalutato. Fra decine di domande banali del tipo “Cosa fai prima di dormire?” a cui seguono risposte altrettanto banali del tipo: “Niente! Chiudo gli occhi”, risposte che ti fanno pensare che gli sportivi di professione non siano particolarmente profondi nelle riflessioni, ne compare una così:

D: Qual è il senso più importante?

R: Il tatto. Per sentire di avere il destino nelle mani.

Una risposta così ribalta completamente il mio osservatorio personale, l’empatia mai nata col tipo di gioco di Berdych, mi è scattata leggendo una sua icastica riflessione sensoriale.

E succede che mi ritrovo qui, davanti alla semifinale del Master 1000 di Madrid, a tifare per Tomas Berdych, tennista tutto d’un pezzo che cerca nel tatto il proprio destino.

Bianco su nero

Immaginate, se riuscite, di non poter muovere il vostro corpo, solo due dita della mano destra o di quella sinistra, scegliete voi. Immaginate poi che le vostre capacità intellettive siano intatte, che tutto ciò che pensate, desiderate, detestate rimanga intrappolato nella vostra mente perché il corpo è incapace di tradurre i pensieri in azioni concrete. Il vostro corpo può solo strisciare.

Immaginate poi che vostro nonno sia un dirigente del Partito comunista spagnolo rifugiato in Francia e vostra madre una straniera dalla pelle scura, donna coraggiosa e senza ambasciata, capitata a Mosca negli anni della primavera di Praga. Immaginate che a un anno e mezzo di vita il regime vi sottragga all’amore di vostra madre e vi costringa a condurre la vostra esistenza in un lungo e penoso strisciare fra decine di orfanatrofi russi.

Se siete riusciti ad immaginare tutto ciò, allora potete capire perché il bianco è il buio ed il nero la luce.

Rubén Gallego nasce a Mosca alla fine degli anni sessanta. Affetto da una grave forma di paralisi cerebrale è in grado di pensare, ragionare, comprendere, inventare, ma non può muoversi. Con lucidità tagliente racconta la sua infanzia atroce, le angherie e i soprusi, le sofferenze insopportabili, la forza e la bontà dei legami inscindibili nati fra i letti degli orfanatrofi.

Il bianco è il colore dell’impotenza e della dannazione, dice Gallego, il colore del soffitto d’ospedale e delle lenzuola, il nulla della vita d’orfanatrofio che scorre all’infinito.

Il nero, invece, è il colore della lotta e della speranza. Il colore del cielo notturno, lo sfondo fermo e nitido dei sogni, delle brevi pause fra gli intervalli diurni, bianchi e sterminati, delle infermità fisiche. E’ il colore del mondo dietro le palpebre chiuse, dice Rubén nel capitolo finale di questo piccolo e grandioso gioiello letterario.

La mia amica Alessandra dice che Bianco su nero è il suo libro del cuore. E’ con il cuore che la ringrazio per avermelo consigliato perché Rubén ha qualcosa da insegnare a chiunque ami scrivere:

E quando passerò a mia volta in mezzo alle schiere di affabili, asettici manichini in camice bianco e arriverò finalmente al mio capolinea, alla mia personale notte eterna, dietro di me resteranno soltanto lettere dell’alfabeto. Le mie lettere, le mie lettere nere su sfondo bianco. Lo spero.

Bianco su nero

La sconosciuta

E se non fosse una donna la sconosciuta di Ivano Fossati? Francamente sono convinta che lo sia, ma lo stato d’animo di oggi mi fa immaginare che questa sconosciuta sia qualcosa di diverso: forse un sentimento, una sensazione o un periodo della vita.

Posso aspettare, è solo un attimo.

Posso aspettare, è solo un secolo.

Quando i cambiamenti attraggono e al contempo spaventano, ci convinciamo di poter aspettare, ce lo ripetiamo nella mente come un mantra: la pazienza è la virtù dei forti. Poco importa che un attimo ci sembri un secolo o che un lungo frammento della nostra vita all’improvviso si riduca ad un istante. Aspettiamo qualcosa o qualcuno per un tempo indefinito e quando finalmente ce lo ritroviamo davanti, ci sembra che sia troppo presto o già tardi o che, addirittura, il tempo non sia mai passato.

Serve coraggio a ricominciare

e a non sbagliare, ancora

E’ vero, affrontare l’ignoto richiede una buona dose di coraggio, ma spesso ne serve di più per sfidare qualcosa che già si conosce e che ci spaventa più del buio. Labile è il confine fra coscienza ed incoscienza, effimero il divario fra ciò che vorremmo essere e ciò che siamo.

Io ti vedrò, lontanissima

E un altro nome ti darò

Proviamo ad ingannarci tenendo le situazioni lontane e cambiandone il nome, convinti di poterle controllare meglio. Ingenua illusione. Non è così che funziona la vita, ciò che è in noi non è negabile, non è allontanabile, è essenziale.

E tu

come una sconosciuta

ritorni

E se la sconosciuta fosse la paura?

1 maggio 1994

Guardo il Gran premio a casa di Jonatha. Pranzo in giardino con gli amici di sempre, la chitarra in sottofondo, il vino, le chiacchiere infinite, le risate e le confidenze.

Poi un lampo negli occhi, la Williams di Senna che sbatte al Tamburello e tutto si ferma. Rimango senza parole per ore, giorni, incapace di capire e di accettare, come milioni di persone nel mondo. La sera stessa, davanti all’Ospedale Maggiore di Bologna, centinaia di uomini e donne in silenzio. Anche io fra loro.

Conservo ancora il numero di Autosprint con la copertina completamente nera e la scritta rossa “E’ morto Senna”. Sta in una cartellina che si chiama Ayrton dove custodisco i ritagli di giornale listati a lutto di quei giorni.

C’è un film documentario del 2010 che si intitola semplicemente Senna. Il regista anglo indiano Asif Kapadia lascia parlare le immagini, racconta Ayrton attraverso i primi piani, le sequenze ovattate, i ricordi di chi lo ha conosciuto. Avrei voluto vederlo al cinema, ma è stato distribuito in pochissime sale, per pochissimi giorni, lontano dalla mia città, così l’ho scaricato dalla rete e me lo sono guardata in portoghese, nella lingua di Ayrton che non comprendo, ma che mi ha detto tutto, proprio tutto di lui.

Di Ayrton non riesco a dimenticare lo sguardo triste, la densa saudade brasiliana, essenza profonda di un campione ineguagliabile, in pista come nella vita.

Sono passati diciannove anni e lo sguardo di Ayrton è ancora qui.

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