Feste con gli amici 3

È un appuntamento fisso, ormai.
Loro aspettano me, che dopo averli acquistati appena usciti, aspetto con pazienza il tempo giusto per leggerli.

Malinconico che dà sfogo al bisogno di ridere.
Bordelli che ammanta ogni cosa di malinconia.
Monterossi che, in questo suo sesto, si fa un po’ controparte.

De Silva così istrionico da non deludere mai.
Vichi che ha il tepore del fuoco acceso nel camino.
Robecchi dall’ironia tagliente come lama di spada.

Tre personaggi, tre autori.
Le mie feste con gli amici.

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L’anno dei misteri

L’avevo un po’ trascurato il Commissario Bordelli. Credo per via di una certa stanchezza o anche solo della necessità di prendere, di tanto in tanto, le distanze da storie ormai ripetitive, come inevitabilmente lo sono tutte quelle “seriali”.

E ho fatto bene a lasciare Vichi in stand by per un po’ perché riprenderlo in mano alla giusta distanza di tempo mi ha fatto capire di sentirne, in un certo senso, la mancanza.

Ne L’anno dei misteri ho ritrovato la sua prosa limpida e sciolta, ho scoperto una trama che si dipana su più livelli, ho ritrovato personaggi noti e ormai cari, rinvigoriti da nuove fasi che si aprono e pacificati da vecchi capitoli che si chiudono.

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Feste con gli amici 2

Mi aspettavano da tempo, scrupolosamente selezionati fra le letture di cui godere nei giorni di riposo, nel solito angolo della libreria, quello che non si può toccare finché non arriva il momento giusto.
Due commissari ed un maestro.
Bordelli, che nell’indagare efferati delitti ci ha messo, ancora una volta, la sua anima romantica.
Ferraro, che affronta i crimini di sangue e la vita con mirabile disincanto.
Ed Erri, che ha sempre qualcosa da insegnarmi, anche quando mi sembra di aver già visto e già sentito e poi scopro che non è così.
Uno di loro dice:

“Sentivo i suoi pensieri e rispondevo, ma lui non poteva sentire i miei.
Coi pensieri degli altri non si può parlare, sono sordi.”
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Una brutta faccenda

Un tangibile senso di famiglia pervade le pagine del secondo Bordelli.
Il commissario Bordelli non ha moglie, né figli, è un uomo solo.

Eppure una famiglia ce l’ha: una parentela affettiva che si compone a pezzi, un nucleo famigliare che all’anagrafe non potrebbe essere riconosciuto, un vincolo senza sangue che scalda le fredde serate di una primavera che tarda ad arrivare.

Perché c’è Rosa, il suo rifugio, la comprensione, le sue mani da baciare. La prostituta a risposo che sa tenergli compagnia anche senza parlare, che sferruzza per lui improbabili maglioni verdi, che gli versa bicchieri di cognac cantando canzoni stonate. La donna che da anni lo aspetta e lo accetta, quella che lo vorrebbe amare ben sapendo che amanti non potranno mai essere.
E perché ci sono Piras e Totò, il Botta e Dante, Mugnai e Diotivede. L’universo bordelliano che contorna le sue giornate.

E poi c’è la notte, le ore più piccole dell’orologio, il buio pesto in cui il mondo interiore di Bordelli riemerge, dentro cui annega i suoi ricordi di guerra fissando il vuoto in attesa che il sonno finalmente lo allontani dalla sua endemica solitudine.

Infine c’è il giallo, una brutta faccenda di bambine assassinate che si intreccia con un passato nazista da dimenticare.

E’ solo il mio secondo libro di Marco Vichi; ce ne sono altri nella libreria che mi aspettano, per fortuna.

Bè, in fondo non ci credeva troppo nemmeno lui, all’amore. L’amore non esisteva veramente, pensò, era solo un modo come un altro di sperare che qualcosa non finisca mai. Un delirio tutto umano, molto poco intelligente.

Un brutta faccenda

La morte della Pizia

Era il 1988, o forse il 1989, quando mia madre mi portò al Teatro Asioli di Correggio per la rappresentazione dell’Edipo Re di Gabriele Lavia. Ho ricordi nitidi di uno spettacolo teatrale che mi emozionò molto. Enormi teli di garza nera coprivano i volti e i corpi degli attori che interpretavano il coro di Tebe, lugubri fantasmi ondeggianti sul palcoscenico. Ricordo ancora quel senso di ineluttabile drammaticità che si rivelava nei versi recitati e nei lunghi silenzi carichi di angoscia. Rammento la commozione del pubblico e la partecipazione emotiva serpeggiante fra i palchi del piccolo teatro correggese.

Vedere sulla scena la tragedia di Sofocle che il professore di greco ci faceva leggere ad alta voce nelle ore di letteratura, mi fece capire la profonda fatalità connaturata alle tragedie greche, rendendo quasi concepibile e naturalmente accettabile che le profezie degli oracoli potessero guidare il corso delle vite umane di interi popoli.

Se avessi letto allora La morte della Pizia di Friedrich Dürrenmatt, quel senso di drammaticità incombente si sarebbe trasformato in una risata irriverente e consolatoria. O forse amara.

La Pizia Pannychis, sacerdotessa di Delfi che annuncia gli oracoli di Apollo al genere umano, altro non è che una pigra e bizzarra imbrogliona che inventa destini e profezie in base al proprio umore, alla simpatia o all’insofferenza che prova nei confronti degli sventurati che a lei si rivolgono per ricevere un vaticinio che segni la strada della loro esistenza.

E così si scopre che la tragedia di Edipo, assassino del proprio padre e amante della propria madre, è stata generata da un capriccio della Pizia. Un capriccio che ha innestato ambiguità ed equivoci, falsità vestite da eventi reali, assurde coincidenze nefaste. Un capriccio che ha rivelato la natura disinibita, crudele ed amorale di Edipo e di Giocasta e di tutti i personaggi che ruotano loro intorno, Sfinge compresa.

Letta così, nelle parole di Dürrenmatt, questa derisoria ricostruzione del mito suscita ilarità perché i miti smitizzati rendono umane anche le imprese inarrivabili e, in fondo, ci fanno stare bene. L’amarezza subentra dopo, quando il libro si chiude e ci si interroga su cosa sia il destino. Da atea quale sono ho una mia personale convinzione: il caso, la sorte, la fatalità ce li possiamo fare alleati se solo siamo capaci di accettarli, di accoglierli, di interpretarli. Impresa umana alla nostra portata.

Illuminante questa lettura inconsueta che mi ha fatto tornare alla mente ricordi di un passato classico e riflettere, ancora una volta, sul senso delle cose.

Sono grata a Marco Vichi per avermela consigliata.

Pizia

Il commissario Bordelli

E’ possibile affezionarsi ad un personaggio dopo aver letto di lui solo una manciata di pagine? A me è successo con Il commissario Bordelli, poliziotto dal cuore generoso creato dalla fantasia di Marco Vichi. A pagina venti mi sembrava già uno di casa, un amico fidato con cui fare lunghe e rassicuranti chiacchierate. E quando un personaggio si insinua così rapidamente nella mente del lettore, vuol dire che l’autore ha fatto centro. O almeno, con me l’ha fatto.

E’ la Firenze degli anni sessanta che fa da sfondo alla trama del romanzo, è la città deserta di uomini nel mese di agosto, affollata solo di zanzare irriducibili, di sigarette fumate a metà e di lattine di birra ghiacciate.
Bordelli è un uomo solo che ama ascoltare aneddoti del passato, che rievoca episodi di guerra, che racconta di legami forti nati in trincea. Tiene vivi i ricordi circondandosi di amici eccentrici e come lui soli: un medico legale ottantenne, un ladruncolo chef, una prostituta amante dei gatti, un inventore pazzo che si circonda di topi, un cugino follemente innamorato, un giovane poliziotto sardo figlio del suo compagno d’armi.

E’ questo l’universo sentimentale di Bordelli, il variegato panorama esistenziale con cui condivide i suoi momenti di umanità.

E poi si, ci sono anche un omicidio e un colpevole da scoprire, ma sono dettagli, non il fulcro del romanzo.

Bordelli ha una sua forza, è racconto a sé, vale la pena leggerlo per scoprire di lui.

Voleva dimenticarsi di avere cinquantatré anni,
di essere un orso malinconico senza più voglia di fare sogni,
un vecchio affezionato alla solitudine, incapace di aprirsi veramente.

Il Commissario Bordelli