
Non avevo aspettative particolari, immaginavo un resoconto fra il saggio e il reportage giornalistico; pensavo di dover affrontare cinquecento pagine di cronaca di un attentato, o giù di lì. E invece Underground è una sorpresa oltre ogni aspettativa. È qualcosa di inedito, anche più di un romanzo, è l’analisi di un singolo, drammatico, inconcepibile atto terroristico che, passando attraverso il racconto collettivo di chi l’ha subito e di chi l’ha inferto, assurge a paradigma di una società.
Non ci sono personaggi, ma ogni testimone lo diventa nelle mani di Haruki.
Il contesto è il medesimo, eppure assume dimensioni diverse a seconda di chi ce lo racconta. La trama è una sola, ma si moltiplica in strade plurime ogni volta che un intervistato tratteggia il proprio angolo visuale. Le testimonianze diventano vite, i ricordi sembrano sogni, ciò che è analitico e razionale sconfina nel multiverso e la cosa che più colpisce è quanto la classica distopia di Murakami trovi radici profonde nella vita reale del popolo giapponese.
Lo posiziono in libreria, accanto ai più amati di Haruki.
“Una storia naturalmente non è filosofia, non è logica, non è etica. È un racconto. Un sogno che continuiamo a fare, senza accorgercene. E senza interruzione, così, come respiriamo. In queste storie siamo degli esseri con due facce. Siamo al tempo stesso il soggetto e l’oggetto. La totalità e la parte. La realtà e l’ombra. L’autore e l’attore. È questa facoltà di narrarci questa storia stratificata che ci aiuta a sopportare la solitudine di essere individui nel mondo.”
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