Finisce così, dal tramonto al buio, il mondiale 2014.
Il tramonto sulla linea di partenza, il buio sul traguardo del circuito di Yas Marina. Continua a leggere
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Solo questo, oggi
Da Suzuka in poi mi sembra che non sia più affare mio. Continua a leggere
Lune e cani a Singapore
Uno strano effetto ottico mi illude che ai margini del circuito di Singapore compaiano decine di lune colorate. Guardo l’immagine aerea del tracciato e mi sembra di vedere un cane stilizzato dalla cui bocca esce un fumetto. Non so se sia colpa della Lacryma Christi che ho bevuto a pranzo, della mia fervida immaginazione o dei giochi di luce che rischiarano l’oscurità malese.
Sta di fatto che ogni fine settembre il Gran premio di Singapore ritorna, con la sua magia, a illuminare la notte asiatica. E’ una gara di contrasti: su in circuito in cui la potenza totale del sistema di illuminazione di pista è di 3,21 MW (con esorbitanti costi connessi), non si riesce a dotare i commissari di pista di semplici spazzoloni per pulire l’asfalto; devono usare le mani per togliere un detrito alla volta. Paradossi orientali, sfarzo e sfavillio, rischi altissimi per i piloti, safety car costantemente presente, misure di sicurezza che lasciano a desiderare.
Con Rosberg incolpevolmente fuori uso, Hamilton ha avuto vita facile. Vettel e Ricciardo, al suo fianco sul podio, hanno ristabilito un precario equilibrio e Fernando, coriaceo e battagliero come un toro, non ce l’ha fatta a conquistare il terzo gradino.
Riguardo l’immagine aerea del tracciato, vedo di nuovo il cane. Nel fumetto che esce dalla sua bocca, le parole di Nico dopo il ritiro: “Dispiaciuto, così, basta”.
https://righeorizzontali.wordpress.com/2013/09/21/by-night/
British overdose
E rieccola, la domenica che ospita nella stessa nazione la finale di uno Slam ed un Gran premio, una di quelle domeniche rare che all’inizio dell’anno segno sulla Moleskine con il titolo: overdose. Non v’è impegno, oggi, capace di mettere in discussione il mio tempo sacro, la mia overdose di sport, quelle ore di sospensione che hanno effetti benefici sulla mia stabilità mentale. L’elaborazione dei pensieri, anche quelli più negativi, va in stand by. Concederselo è un dovere, un lusso necessario.
Siamo a Silverstone, a metà strada fra Londra e Birmingham; siamo a Wimbledon, a due passi dal Tower Bridge. E’ una british overdose, quella di oggi.
La Ferrari è sotto accusa, le strategie si stanno rivelando disastrose, speranze non ce ne sono. Fernando fa il diplomatico e Kimi, come al solito, tace. Spettacolo sotto la pioggia o gran premio prudente dal dominio incontrastato di Nico Rosberg? Rimonta di Hamilton o risultato a sorpresa di un redivivo Vettel?
It doesn’t matter, direbbero a Londra, è tempo sacro, sia quel che sia.
Ogni volta che Roger Federer raggiunge la finale di uno slam, si legge e si dice: “Godiamocela perché potrebbe essere l’ultima”. Me la godrò davvero perché a contendergli la coppa sull’erba dell’ All england lawn tennis and croquet club ci sarà Nole Djokovic. Perfezione ed eleganza non deludono mai.
6 luglio 2014, british overdose.
Una consapevolezza capace di rovinarti la vita
In questo fine settimana sportivo che parla francese, a ronzarmi in testa c’è una frase di Jacques Villeneuve, figlio dell’indimenticabile Gilles a cui il circuito automobilistico di Montréal è dedicato.
Una frase pronunciata con una certa solennità, poco prima delle qualifiche, con un tono di afflizione intrisa di enfasi. Un frase che suona più o meno così: “Quando sei in Formula 1, sapere che il tuo rivale, nonché amico, corre più forte di te, è una consapevolezza capace di rovinarti la vita”. Si riferiva a Hamilton e Rosberg, rivali di oggi e amici, presunti, di sempre.
Se lo dice Jacques, pilota meteora degli anni novanta che nel 1997 vinse un mondiale guidando una Williams, c’è da credergli. Se lo dice lui che è figlio di cotanto padre, c’è da rifletterci su, con molta attenzione.
Li vediamo in tante vesti umorali questi piloti di Formula 1, tutti uguali (tranne Kimi) nella gioia della vittoria, nella delusione della sconfitta, nella rabbia quando la cattiva sorte si accanisce.
Non avevo mai pensato che ci si potesse far rovinare la vita da chi è capace di volare più veloce di te, da chi è più bravo, da chi ha più talento. Perché non è di sana invidia che stiamo parlando, ma di qualcosa di più profondo, di una ragione assoluta che non lascia via di scampo, dell’essenza stessa di essere un pilota.
E allora mi accingo a guardare il Gran premio del Canada con occhi diversi, liberandomi dalle sovrastrutture, dal mio solito modo empatico di vivere la gara, dagli stereotipi di cui anch’io sono satura, come tutti. Provo a lasciarli nudi, questi occhi, perché vorrei sentire quel che prova il pilota, immedesimarmi in quella consapevolezza capace di rovinarmi la vita da cui dipende il mio futuro, la mia felicità. Salirò in macchina con Nico o con Lewis e proverò a pensare come loro, cercherò di capire perché è così importante vincere.
Per come sono fatta, già lo so che faticherò, mi verrà in mente la competitività limpida di Rafa Nadal che ha appena sconfitto Nole Djokovic nella finale del Roland Garros. Con rispetto, col giusto agonismo, quasi con affetto. Scaccerò il pensiero delle vittorie senza cattiveria, provando ad avvicinarmi all’idea che se a vincere è il migliore, a qualcun altro gli si rovina la vita.
E se non ce la farò, chiederò aiuto alle galline, che sempre mi fanno compagnia quando si corre Montréal.
https://righeorizzontali.wordpress.com/2013/06/06/lantennista-le-galline-e-il-gp-di-montreal/
In Kimi
In Kimi credo.
In Kimi vedo l’equilibrio.
Una strana forma di bilanciamento che lo rende diverso dagli altri professionisti del circus.
Pilota anomalo Raikkonen, capace di vivere anche senza la Formula 1, talmente dotato di talento e velocità da regalarci un mondiale inaspettato nel 2007, poi fare due annate insoddisfacenti e, col rischio di vedere tramontare una carriera, prendersi una pausa per fare altro. Da quando è tornato, nel 2012, è sempre lui il mio punto di riferimento in pista.
Pilota affascinante nel suo essere glaciale. Uomo che ama il divertimento e la vita reale, finlandese dalle parole rare, avaro di sorrisi, contenuto nelle reazioni, sconosciuto nella sua emotività.
Oggi il terzo gradino del podio di Montecarlo avrebbe dovuto essere suo, di forza per il sorpasso straordinario in partenza, di diritto per la potenza della sua guida, di merito per la qualità dei suoi giri veloci. E invece è arrivata una Marussia qualunque a tamponarlo, da doppiata, in regime di safety. E’ capitato un Magnussen di troppo in collisione sulla strada della rimonta.
Solo questo mi va di raccontare del Gran Premio di oggi. Non della doppietta monegasca di Rosberg, non della pagliuzza di graining nell’occhio sinistro di Hamilton, non della prestazione depotenziata di Alonso.
Solo di Kimi mi va di raccontare.
Perché in Kimi ho sempre creduto.
Ma come fai a stare sveglia?
La domanda che mi sento rivolgere più spesso quando qualcuno impara della mia passione per la Formula 1 è: “Ma come fai a stare sveglia?”
E’ vero, è iniziato il girone dei gran premi europei, quelli che vanno in onda la domenica dopo pranzo, quando la fase digestiva induce all’appisolamento, il sangue si concentra nello stomaco, fa abbassare i livelli di guardia e, piazzandosi sul divano, ci si addormenterebbe anche davanti ad un action movie con Christian Bale.
Lo confesso, anche a me ogni tanto capita di abbassare le palpebre, ma le riapro dopo pochi istanti perché quel rombo ronzante in sottofondo richiama il mio naturale istinto a immedesimarmi nel pilota dentro l’abitacolo, nel meccanico dentro al box, nell’ingegnere che interpreta i dati della telemetria.
Non sono una tecnica, poco ne capisco di elementi aerodinamici, profili estrattori, flap anteriori o power unit. Vivo ogni gran premio dal punto di vista umano, sento l’atmosfera rilassata delle prove libere del mattino, le chiacchiere sdrammatizzanti della squadra che pranza nel paddock e i minuti di isolamento che i piloti vivono dentro al motor home. Assorbo la tensione che cresce quando le auto si posizionano sulla griglia di partenza ed osservo, curiosa, il magnifico rituale della vestizione ignifuga del pilota. Mi identifico nel meccanico che apre l’ombrello per proteggere la vettura dal sole o dalla pioggia, mi viene da correre quando il team deve lasciare la griglia di partenza e mi concentro quando il pilota rimane da solo dentro l’abitacolo.
E ogni volta, anche se sono passate decine di anni ed ho visto centinaia di gran premi, sento tutte quelle emozioni elevarsi di grado ed intensità, rimango in attesa col fiato sospeso, ascolto il frastuono dei motori che cresce fino a diventare boato nell’istante in cui i piloti possono premere l’acceleratore e spararsi in pista ad una velocità al limite dell’umano.
E’ lo stupore per l’incoscienza che mi fa stare sveglia anche durante il gran premio più noioso della stagione, quello in cui Hamilton parte e rimane primo, Rosberg gli sta dietro e Rikkonen viene doppiato dalle Mercedes all’ultimo giro. Magari mi concentro sulle retrovie, sulla battaglia per il sedicesimo posto fra Adrian Sutil ed Esteban Gutierrez, ma di certo non allento l’attenzione perché per sfrecciare a 300 km all’ora rinchiusi in strette scocche di fibra di carbonio e schiume polimeriche, serve una sconsiderata imprudenza che ammiro, ogni volta, incredula.
C’è qualcosa di non umano in questi esseri umani.
A quella velocità anche un respiro fatto male può farti perdere quel decimo di millesimo che ti costerà punti importanti in classifica o, peggio, può farti uscire di strada e comprometterti, in qualche modo, la vita.
Allora penso a quei ventidue piloti che per quasi due ore si trasformano in folli meccanismi ad altissima precisione e, a chi mi chiede come faccio a stare sveglia, rispondo: “Di fronte a tanta pazzia non posso di certo dormire”.
Da Shanghai a Montecarlo passando per Losanna
E’ la domenica dei numeri due contro i numeri uno, la Pasqua delle lese maestà e degli allievi che superano i maestri.
Il Gran Premio di Shanghai ha confermato che questa nuova Formula 1 premia lo spettacolo, induce i piloti ad una competizione vera, spinge a rincorse e sorpassi, invita a violare gli ordini di scuderia. Su un circuito ardito, fatto di salite, discese e di curve infinite, dove il marble a fine gara ricopre l’asfalto di una viscida patina gommosa, Nico Rosberg, senza l’ausilio della telemetria andatagli in panne, ha rincorso Lewis Hamilton, risalendo la griglia di partenza e riuscendo a salirgli accanto sul podio. Daniel Ricciardo, il pilota dal sorriso contagioso, ha osato sfidare sua maestà Sebastian Vettel che, in crisi di velocità, si è messo a fare i capricci. Gli sono costati il quarto posto e 22 secondi di distacco: una lezione che non dimenticherà. Fra le Mercedes e le Red Bull ci sta Fernando, in gara con se stesso, una gara d’intelligenza, un terzo posto che sa di ossigeno per i tifosi e per il team Ferrari.
A Montecarlo, nel Master 1000 che apre la stagione tennistica sulla terra rossa, Stanislas Wawrinka ha compiuto l’impresa. Nella sfida tutta svizzera del torneo più chic dell’Atp world tour ha sconfitto Roger Federer, suo mentore, sua fonte di ispirazione, suo compagno di Davis, suo amico, suo esempio di vita, nonché miglior tennista di tutti i tempi. Ce n’era abbastanza per soccombere psicologicamente in pochi game e invece Stanislas da Losanna ha combattuto con tenacia e ha conquistato, con rispetto e deferenza, il suo primo Master 1000 in carriera.
Una Pasqua così: da Shanghai a Montecarlo passando per Losanna.
Manama, un tappeto di velluto
Ai margini della pista c’è un tappeto di velluto colorato. E’ una strana superficie, sembra sabbia compattata, una liscio velour che costeggia l’intero tracciato di Manama. Ha i colori tenui delle palme e dei cammelli, il rosso e l’arancione del tramonto nel deserto, le sfumature blu del mare che lambisce le trentatré isole del Bahrain.
E’ la prima volta che nel Bahrain si corre di notte e il fascino delle vetture che brillano nel buio di Manama non solo oscura l’esotismo di Abu Dhabi, ma supera persino la magia di Singapore. Un rigore incantato aleggia sulla gara: c’è ordine, c’è determinazione, c’è sicurezza. Quella delle Mercedes i cui colori argentati esaltano lo charme di questa lunga notte mediorientale.
Che le Mercedes domineranno il mondiale lo abbiamo già capito. Che Nico Rosberg e Lewis Hamilton non siano allegri compari, ma rivali irriducibili ce l’hanno dimostrato oggi, regalandoci un duello vero, momenti di gara esaltanti, tentativi di sorpasso al limite, competizione pura.
C’è chi attribuisce la supremazia delle Mercedes alle nuove regole. Io non sono in grado di dirlo, non ho abbastanza competenze tecniche per affermare con certezza quale delle novità introdotte stia alterando l’equilibrio fra i team. Una cosa però, a istinto e a logica, mi sento di affermarla. Trovo assurdo che nel campionato automobilistico in cui si raggiungono le maggiori velocità su pista, si debba controllare e limitare il consumo di carburante. La F1 “economy”, come qualcuno l’ha definita, è un controsenso inspiegabile.
Il novecentesimo Gran Premio della storia della Formula 1 se l’è aggiudicato Lewis, Nico dietro di lui, terzo il messicano Perez.
E le Ferrari, come al solito, stanno a guardare. Magari col naso all’insù, magari quei fuochi artificiali che a Gran Premio finito illuminano la notte di Manama. Ironia vuole che siano fuochi rossi, luminosi e scoppiettanti, che di argento hanno ben poco.
Devono aver sbagliato colore quando li hanno ordinati.
Nico, the pole man
Ha la faccia da bravo ragazzo Nico Rosberg, uno di quei visi un po’ squadrati, pieni e luminosi che mettono di buon umore. L’ho sempre considerato un pilota talentuoso ma sfortunato, capitato nelle scuderie giuste ma nelle annate sbagliate. Nel 2010, libero dal contratto con la Williams, speravo che la Ferrari lo ingaggiasse come secondo di Alonso, una sorta di scommessa tedesca post era Schumacher. E invece se lo accaparrò la Mercedes, affiancandolo proprio a Michael Schumacher, illustre ed ingombrante connazionale.
A guardare il viso quasi angelico di Nico non si direbbe che è uno spericolato pilota con la velocità pura nel sangue. Uno che, se è pur vero che fatica a reggere la lunghezza della gara, sul giro secco è capace di polverizzare qualsiasi avversario, persino il re delle pole Lewis Hamilton, suo compagno di scuderia.
Da molti è definito come l’eterna promessa destinata a non sbocciare mai. Oggi, forse, qualcuno si ricrederà perché a Montecarlo Nico ha infilato la terza pole position consecutiva dimostrando di essere all’altezza del padre Keke, campione degli anni ottanta dalla guida aggressiva che proprio nel Gran Premio del Principato dava il meglio si sé, esaltando la propria sconsideratezza nel circuito cittadino più pericoloso ed insidioso di tutto il mondiale.
La genetica, a volte, è strana. Keke, con la sua lunga chioma e l’aria da maledetto, sfoderava una sfrontatezza che infastidiva avversari e pubblico. Nico, con il volto rassicurante e gli occhi placidi, ha uno stile di guida velocissimo ma corretto e amato da tutti perché rispettoso delle regole. Sangue dello stesso sangue, eppure diversi nell’aspetto e nella condotta. Eppure due grandi campioni.
A Nico manca solo una pole per eguagliare il record del padre.
Magari in Canada, fra quindici giorni.
Magari dedicandola a Keke.