E’ la storia che ritorna

Era uno di quei momenti in cui avevo smesso di sperare. Mi ero abituata al tennis di livello eccelso appiattito sullo strapotere del numero 1, ai pochi cedimenti nel gioco di potenza, al ragionierismo quadrato, seppur mirabile, di un’epoca tennistica in cui le differenze fra il primo e gli altri si misurano in muscoli, solidità, completezza dei colpi e non in stile, millimetri o nel creare un gioco nuovo e farlo diventare perfetto.

Avevo smesso di sperarci e invece oggi Roger e Rafa si sfidano mostrandosi al mondo come dieci anni fa e noi tifosi nostalgici esultiamo, perché è un regalo inaspettato che nemmeno osavamo sognare.

Basta guardarli mentre entrano in campo per capire che loro sono un’altra storia, la modestia che si fa autorevolezza, il profilo alto di chi è campione perché in questo sport ha segnato un’era, non un semplice passaggio generazionale. Continua a leggere

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British overdose

E rieccola, la domenica che ospita nella stessa nazione la finale di uno Slam ed un Gran premio, una di quelle domeniche rare che all’inizio dell’anno segno sulla Moleskine con il titolo: overdose. Non v’è impegno, oggi, capace di mettere in discussione il mio tempo sacro, la mia overdose di sport, quelle ore di sospensione che hanno effetti benefici sulla mia stabilità mentale. L’elaborazione dei pensieri, anche quelli più negativi, va in stand by. Concederselo è un dovere, un lusso necessario.

Siamo a Silverstone, a metà strada fra Londra e Birmingham; siamo a Wimbledon, a due passi dal Tower Bridge. E’ una british overdose, quella di oggi.

La Ferrari è sotto accusa, le strategie si stanno rivelando disastrose, speranze non ce ne sono. Fernando fa il diplomatico e Kimi, come al solito, tace. Spettacolo sotto la pioggia o gran premio prudente dal dominio incontrastato di Nico Rosberg? Rimonta di Hamilton o risultato a sorpresa di un redivivo Vettel?
It doesn’t matter, direbbero a Londra, è tempo sacro, sia quel che sia.

Ogni volta che Roger Federer raggiunge la finale di uno slam, si legge e si dice: “Godiamocela perché potrebbe essere l’ultima”. Me la godrò davvero perché a contendergli la coppa sull’erba dell’ All england lawn tennis and croquet club ci sarà Nole Djokovic. Perfezione ed eleganza non deludono mai.

6 luglio 2014, british overdose.

British overdose

https://righeorizzontali.wordpress.com/2013/09/07/overdose/

Una consapevolezza capace di rovinarti la vita

In questo fine settimana sportivo che parla francese, a ronzarmi in testa c’è una frase di Jacques Villeneuve, figlio dell’indimenticabile Gilles a cui il circuito automobilistico di Montréal è dedicato.

Una frase pronunciata con una certa solennità, poco prima delle qualifiche, con un tono di afflizione intrisa di enfasi. Un frase che suona più o meno così: “Quando sei in Formula 1, sapere che il tuo rivale, nonché amico, corre più forte di te, è una consapevolezza capace di rovinarti la vita”. Si riferiva a Hamilton e Rosberg, rivali di oggi e amici, presunti, di sempre.

Se lo dice Jacques, pilota meteora degli anni novanta che nel 1997 vinse un mondiale guidando una Williams, c’è da credergli. Se lo dice lui che è figlio di cotanto padre, c’è da rifletterci su, con molta attenzione.

Li vediamo in tante vesti umorali questi piloti di Formula 1, tutti uguali (tranne Kimi) nella gioia della vittoria, nella delusione della sconfitta, nella rabbia quando la cattiva sorte si accanisce.

Non avevo mai pensato che ci si potesse far rovinare la vita da chi è capace di volare più veloce di te, da chi è più bravo, da chi ha più talento. Perché non è di sana invidia che stiamo parlando, ma di qualcosa di più profondo, di una ragione assoluta che non lascia via di scampo, dell’essenza stessa di essere un pilota.

E allora mi accingo a guardare il Gran premio del Canada con occhi diversi, liberandomi dalle sovrastrutture, dal mio solito modo empatico di vivere la gara, dagli stereotipi di cui anch’io sono satura, come tutti. Provo a lasciarli nudi, questi occhi, perché vorrei sentire quel che prova il pilota, immedesimarmi in quella consapevolezza capace di rovinarmi la vita da cui dipende il mio futuro, la mia felicità. Salirò in macchina con Nico o con Lewis e proverò a pensare come loro, cercherò di capire perché è così importante vincere.

Per come sono fatta, già lo so che faticherò, mi verrà in mente la competitività limpida di Rafa Nadal che ha appena sconfitto Nole Djokovic nella finale del Roland Garros. Con rispetto, col giusto agonismo, quasi con affetto. Scaccerò il pensiero delle vittorie senza cattiveria, provando ad avvicinarmi all’idea che se a vincere è il migliore, a qualcun altro gli si rovina la vita.

E se non ce la farò, chiederò aiuto alle galline, che sempre mi fanno compagnia quando si corre Montréal.

https://righeorizzontali.wordpress.com/2013/06/06/lantennista-le-galline-e-il-gp-di-montreal/

Salut-Gilles

Da Shanghai a Montecarlo passando per Losanna

E’ la domenica dei numeri due contro i numeri uno, la Pasqua delle lese maestà e degli allievi che superano i maestri.

Il Gran Premio di Shanghai ha confermato che questa nuova Formula 1 premia lo spettacolo, induce i piloti ad una competizione vera, spinge a rincorse e sorpassi, invita a violare gli ordini di scuderia. Su un circuito ardito, fatto di salite, discese e di curve infinite, dove il marble a fine gara ricopre l’asfalto di una viscida patina gommosa, Nico Rosberg, senza l’ausilio della telemetria andatagli in panne, ha rincorso Lewis Hamilton, risalendo la griglia di partenza e riuscendo a salirgli accanto sul podio. Daniel Ricciardo, il pilota dal sorriso contagioso, ha osato sfidare sua maestà Sebastian Vettel che, in crisi di velocità, si è messo a fare i capricci. Gli sono costati il quarto posto e 22 secondi di distacco: una lezione che non dimenticherà. Fra le Mercedes e le Red Bull ci sta Fernando, in gara con se stesso, una gara d’intelligenza, un terzo posto che sa di ossigeno per i tifosi e per il team Ferrari.

A Montecarlo, nel Master 1000 che apre la stagione tennistica sulla terra rossa, Stanislas Wawrinka ha compiuto l’impresa. Nella sfida tutta svizzera del torneo più chic dell’Atp world tour ha sconfitto Roger Federer, suo mentore, sua fonte di ispirazione, suo compagno di Davis, suo amico, suo esempio di vita, nonché miglior tennista di tutti i tempi. Ce n’era abbastanza per soccombere psicologicamente in pochi game e invece Stanislas da Losanna ha combattuto con tenacia e ha conquistato, con rispetto e deferenza, il suo primo Master 1000 in carriera.

Una Pasqua così: da Shanghai a Montecarlo passando per Losanna.

Montecarlo

 

A Melbourne, dove tutto ricomincia

Per il terzo anno consecutivo è stata scelta dall’Economist come città più vivibile del mondo. Lo skyline sullo Yarra river è nell’immaginario di chi la sogna, il suo logo è un libro che si apre a ventaglio perché nel centro di Melbourne, quando soffia il vento, ogni cosa può prendere il volo, persino i pensieri e le parole. Violenti sono i raggi del suo sole, capaci di ustionare la scriminatura dei capelli in una manciata di minuti. Provato sulla mia, potete crederci!

Melbourne è una città geometrica, a guardarla dall’alto emerge la trama del cardo e del decumano, come se l’avessero progettata gli antichi romani. E invece non ha nemmeno duecento anni di storia. E’ talmente giovane da racchiudere in sé la bellezza ed il tormento degli anni ribelli.

Nel Melbourne park, uno dei più immensi e spettacolari complessi sportivi dell’era moderna, si trovano i campi su cui si disputa il primo grande torneo dell’anno: gli Australian Open, lo slam che noi europei non apprezziamo; troppo lontano, troppo fuori misura rispetto ai nostri angusti confini. Eppure è da Melbourne che si ricomincia, è lì che si testa la forma dei tennisti, la tenuta psicologica, la possibilità di fare una grande stagione.

Sul campo centrale, la Rod Laver Arena, ci sono stata negli anni in cui la finale si giocava di giorno, la superficie era verde e l’Andre Agassi risorto sollevava i trofei dei suoi ultimi slam.

Oggi, nel giorno della festa nazionale australiana, è toccato a Stanislas Wawrinka alzare al cielo la coppa. Lo svizzerone un po’ polacco e un po’ tedesco ha sconfitto Rafa, piegato dalle sue stesse piaghe nel palmo della mano e da un mal di schiena inarginabile. Ha ricominciato vincendo il suo primo slam, Stanislas.
Ha ricominciato da Melbourne. E da dove, se no?

Il 16 marzo all’Albert Park risuonerà il primo rombo del motore.
Perché è da Melbourne che si ricomincia.
Ogni anno.

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Tre re e un fante

Tre re e un fante: se fossi una giornalista sportiva commenterei così il tabellone delle semifinali del Master 1000 di Parigi, torneo di fine stagione che precede di una sola settimana la Master Cup di Londra, il più importante appuntamento tennistico dell’anno dopo gli slam.

Tre sovrani del tennis e un gregario si sfidano oggi sul campo centrale di Bercy, in uno scenario teatrale in cui ad ogni cambio di campo lo stadio piomba nel buio più totale e due fari crepuscolari illuminano i tennisti che si asciugano il sudore, che riprendono fiato, che trangugiano sali minerali. Come se il campo fosse un palcoscenico, come se i tennisti fossero attori, come se illuminando il loro sudore potessimo cogliere qualcosa in più del loro talento.

In uno scenario così hollywoodiano la solidità di Djokovic incontra la perfezione di Federer, l’estro di Nadal incontra la caparbietà di Ferrer.

Decidere per chi tifare non è semplice; davanti a cotanto livello tennistico ci si gode lo spettacolo e basta.

Ma poiché parteggiare per Nole, per Roger o per Rafa (quelli che vincono sempre) è fin troppo facile, anche stavolta sarò dalla parte di David Ferrer, l’eterno secondo, il furetto che in campo non si risparmia mai, il fante con la racchetta in resta che alle semifinali ci è arrivato quasi sempre, ma che di coppe al cielo ne ha alzate poche in questi anni.

Sto dalla parte di chi non è abituato a vincere perché, come ho già scritto e mi ripeto, anche i fanti hanno il sacrosanto diritto di diventare re.

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Overdose

Le qualifiche, il Gran Premio, le fasi finali di uno Slam.
Di fine settimana così, quando va bene, ne capitano tre in un anno. Sono quelli che chiamo i miei week end da overdose di sport, quelli in cui riesco a mettere da parte ogni impegno, ogni proposito, ogni incombenza per poter trascorrere lunghe e silenziose ore davanti allo schermo in compagnia delle mie passioni sportive.

E’ tempo per me, è tempo sacro.

Dei quattro tornei di tennis più importanti del mondo l’US Open è quello che mi piace meno. Perché il cemento è una superficie che fatico a capire, perché penso che il pubblico chiassoso e la musica ad alto volume fra una pausa e l’altra del gioco siano innaturali per questo sport, perché la tradizione tennistica americana non mi ha mai appassionato, ad esclusione di Andre Agassi, uomo, atleta ed eroe moderno che ha cambiato la concezione del tennis. In semifinale, sui lati opposti del tabellone, ci sono i due tennisti del ranking per cui mi ritrovo sempre a tifare: Nole, il numero uno indiscusso e Rafa, risalito in pochissimi mesi al secondo posto della classifica mondiale. Sono loro che vorrei vedere giocarsi la finale sull’Arthur Ashe, il campo centrale di New York.

Di tutti i Gran Premi, invece, quello di Monza è fra i miei preferiti. Perché in un’epoca passata ho avuto la fortuna di frequentarne la pit lane e i box, perché il Parco del Lambro è un contesto naturale che il mondo ci invidia, perché un tappeto umano di magliette, cappellini e bandiere col cavallino rampante è uno spettacolo impagabile che solo Monza può offrire.
Ancora una volta le qualifiche hanno dato ragione alla Red Bull. Nel mio sogno da overdose immagino Fernando sul primo gradino del podio, con Kimi al suo fianco.

E’ solo un sogno, lo so.

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Due guerrieri e un giovane polacco

Due semifinali così non si vedevano da anni.

Wimbledon, il tempio del tennis, è un torneo che dona regali inaspettati da tennisti che mai avresti detto.

Juan Martìn del Potro, tennista argentino dalla carriera tormentata da infortuni, oggi ha sfidato Novak Djokovic, il numero uno del mondo, già vincitore di Wimbledon, campione consacrato che ad ogni slam scrive un pezzo di storia del tennis contemporaneo. Sull’erba bisogna muoversi molto, è necessario essere scattanti per andare a cercare la palla. L’erba è insidiosa, vince chi è agile, scattante, fulmineo. Del Potro è alto due metri e pesa 97 kg, Nole ne pesa quindici in meno e non arriva al metro e novanta. In teoria Nole dovrebbe volare e Delpo arrancare. E invece oggi l’argentino ha sfoderato un’elasticità muscolare, una velocità negli scambi ed determinazione tale da convincere il gelido pubblico londinese a tifare per lui. Quasi cinque ore di gioco, un’appassionante lotta fra guerrieri. Ha vinto Nole, perché è il numero uno, perché è abituato a vincere, perché ha una forma fisica superiore, perché il suo cervello è sempre e saldamente dentro al campo, al centro del match.

Dall’altra parte lo scozzese Andy Murray, numero due al mondo che tutto ispira tranne la simpatia, non ha avuto vita facile contro il giovane polacco Jerzy Janowicz, ventiduesimo in classifica mondiale che i due metri li supera di qualche centimetro e che ha la semplicità di gioco di un tennis vecchia maniera. Ha giocato in casa Murray ed il pubblico dell’All england lawn tennis and croquet club gli ha dato una mano ad agguantare una vittoria quasi scontata contro una giovane promessa che non aveva mai raggiunto una semifinale di slam. Il pubblico ha perdonato ad Andy le bizze, le proteste contro il giudice di sedia, le imprecazioni rivolte a se stesso, lo sguardo severo e a tratti arcigno della madre Judy e tutti quei passaggi a vuoto durante i quali Andy sembrava starsene fuori dal campo, ai margini del match.

Domenica, nella finale del torneo di tennis più prestigioso del mondo, non avrò dubbi su chi tifare: Nole dentro al campo, Nole al centro del match.

wimbledon

Il tennis come esperienza religiosa

Con un titolo così mi aspettavo un saggio vaneggiante scritto da un fanatico del tennis ai limiti dell’invasato. Più che aspettarmelo, lo ammetto, ci speravo. Perché di invasati di calcio, basket, Formula 1, baseball…. al mondo ce ne sono tanti, mentre di scalmanati del tennis non ne ho mai visto uno. I toni esagerati, mistici, esasperati mal si adattano allo sport dell’eleganza e dell’educazione quale è il tennis.

Insomma ero curiosa di leggere del mio sport preferito in modo trascendente ed il titolo questo mi ispirava: un’analisi fuori dagli schemi, un’interpretazione oltre le righe. La mia amica Lisa che mi ha regalato Il tennis come esperienza religiosa forse sperava in una mia conversione spirituale, non so. Tant’è che mi sono approcciata a questo saggio con un’alta dose di aspettative.

Deluse, ahimè.

Ora, non è che sono così sprovveduta. Dello scomparso David Foster Wallace ho letto Questa è l’acqua e sono rimasta ammirata dalla profondità e dalla limpidezza del suo narrare, oltre che dall’equilibrio complessivo del suo pensiero. Ed è proprio perché un autore così equilibrato se n’è uscito con un titolo così dissacrante che mi ero illusa di leggere qualcosa di pseudo rivoluzionario.

In realtà nemmeno il titolo è così irriverente come sembra perché non è un titolo originale, ma è mutuato da uno dei due saggi che il libro contiene. Questa edizione Einaudi del 2012, infatti, riedita due lunghi articoli pubblicati sul New York Times Magazine, uno del 1996 dal titolo “Democrazia e commercio agli US Open” ed uno del 2006 dal titolo Federer come esperienza religiosa.

Ecco, bastava dirlo! Se uno scrittore di alto livello come Foster Wallace racconta di Federer (e non del tennis) come esperienza mistica, non c’è proprio nulla di strano.

Perché Federer è il tennis, Federer è la perfezione, Federer è soprannaturale.

Collocare Roger Federer nel mondo del sacro è la semplice, pura, naturale realtà.

Bastava dirlo!

Il tennis come esperienza religiosa

Storia di David, eterno secondo

Arrivare a un soffio dalla vittoria e vederla scivolare fra le dita è la condanna degli eterni secondi.

David Ferrer è un terraiolo eccezionale, un tennista astuto, dalle intuizioni brillanti, intelligente nelle scelte di gioco e rispettoso negli atteggiamenti in campo. La differenza fra lui e gli altri giocatori del ranking mondiale è evidente: in campo David è un furetto, un razzo, una saetta. Merito delle gambe corte e dell’elasticità dei movimenti. I suoi spostamenti laterali sulle ginocchia molleggiate disorientano l’avversario e quegli scatti improvvisi e fulminanti, non c’è Rafa né Nole che possano eguagliarli. Rapidità e agilità sono i suoi contrassegni, umiltà e serietà le cifre distintive del suo carattere. David è un campione vero, anche se non ha mai potuto dimostrarlo fino in fondo.

Cresciuto sui campi di terra battuta nella stessa Spagna di Nadal, David ha avuto la sfortuna di essere quasi coetaneo di Rafa e di giocare nel ranking dovendosi sempre confrontare con lui. Fosse nato un decennio prima avrebbe vissuto una lunga stagione da numero uno sulla terra rossa prima dell’era Nadal. Perché a Ferrer non manca nulla: ha potenza, precisione nel gioco e quella maturità tennistica che risiede nel cervello, più che nelle braccia.

Oggi, sul campo centrale del Roland Garros, David gioca la partita più importante della sua vita, la sua prima finale di un Grande Slam contro l’amico e rivale Rafael Nadal.

Ventitré scontri diretti, diciannove vittorie di Rafa. Precedenti che pesano come macigni sulle gambe scattanti di David. I bookmaker inglesi danno Nadal vincente all’80% perché Rafa è Rafa e solo un pazzo gli scommetterebbe contro.

Io, però, oggi tifo Ferrer perché gli eterni secondi hanno il sacrosanto diritto di arrivare primi, almeno una volta nella vita.

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Righe agli Internazionali

Imponenti statue di discoboli e maratoneti circondano il più bel campo da tennis del mondo. Infossato come un anfiteatro classico, lo stadio Nicola Pietrangeli ha la terra rossa più suggestiva di tutto il circuito ATP.

Giocare qui, dicono i più grandi tennisti del mondo, è un’emozione unica, è come fare un balzo nella storia, immersi nella magia di Roma, la città senza tempo.

Pini marittimi e morbidi prati incorniciano il complesso del Foro Italico dove ha sede un esclusivo circolo di tennis che nei giorni degli Internazionali diventa luogo per tutti, ritrovo a prezzi popolari per gli appassionati di questo sport provenienti da ogni angolo d’Italia.

Quando avevo undici anni, l’età che ha ora mio figlio maggiore, avrei dato qualsiasi cosa per poter assistere a questo torneo. Immaginavo i miei idoli, Ivan Lendl e Mats Wilander affrontarsi su una superficie per loro ostica, quella che Andre Agassi ha sempre definito vischioso pantano.

Oggi sono qui con i miei ragazzi, desiderosi quanto me di vedere Federer e Nadal, la Errani e la Williams.

Insieme agli Internazionali.

Stadio Pietrangeli

España

Viene voglia di essere spagnoli in questa domenica di maggio in cui centinaia di bandiere rojigualda sventolano sul circuito di Barcellona e in cui si ode un unico coro inneggiante Rafa sulla terra rossa di Madrid. Una domenica di sole che decreta in via definitiva Fernando Alonso e Rafael Nadal impareggiabili campioni mondiali, talenti superlativi nella loro terra natia. Finalmente una domenica di festa per un Paese sanguigno e tribolato quasi quanto il nostro.

A Barcellona Fernando, quinto in griglia di partenza, ha dominato il Gran premio di casa con una determinazione sbalorditiva. Una vittoria voluta più di ogni altra, con un sorpasso stratosferico al primo giro e una strategia di gara finalmente perfetta.

Li vorrei tutti così i podi di questo mondiale 2013. Fernando in vetta, iceman Kimi al suo fianco e Felipe a chiudere la fila. Il passato e il presente della Ferrari che abbracciano il team manager Stefano Domenicali completamenti grondanti di bollicine vittoriose.

Sul campo centrale di Madrid Rafa ha impartito allo svizzero Wawrinka una lezione di tennis su terra battuta. Nella sua quinta finale consecutiva dall’inizio dell’anno, ha dimostrato che, se non c’è Nole sul suo cammino, può arrivare ovunque, scalare la classifica mondiale e risalire dal quel penalizzante quinto posto verso cui è scivolato dopo i problemi fisici dello scorso anno. I numeri parlano per lui: dopo sette mesi fuori dai campi, ha giocato sette tornei e cinque finali di cui due vinte. Sentirlo ringraziare il pubblico della sua capitale con quella sciolta parlata maiorchina fa quasi commuovere perché Rafa è tornato e il tennis ne aveva bisogno.

Fernando e Rafa, España!

Berdych, il destino nelle mani

Non mi è mai piaciuto Tomas Berdych, tennista ceco, sesto al mondo nel ranking ATP. E’ un picchiatore della palla, uno che pensa solo al proprio gioco, che non attua strategie né possiede finezze, che crede solo nella propria forza fisica e si concentra su come sfruttarla al meglio.

Dal mio osservatorio personale, che di tecnico ha poco e di empatico quasi tutto, ho sempre considerato Berdych un tennista scarsamente in sintonia col campo. Uno molto forte, ma un po’ legnoso, privo di scioltezza, a tratti rigido, un atleta imponente e poco flessibile.

Insomma Berdych non rientra fra i miei tennisti preferiti ma, leggendo una sua recente intervista, mi sono resa conto che l’ho sempre sottovalutato. Fra decine di domande banali del tipo “Cosa fai prima di dormire?” a cui seguono risposte altrettanto banali del tipo: “Niente! Chiudo gli occhi”, risposte che ti fanno pensare che gli sportivi di professione non siano particolarmente profondi nelle riflessioni, ne compare una così:

D: Qual è il senso più importante?

R: Il tatto. Per sentire di avere il destino nelle mani.

Una risposta così ribalta completamente il mio osservatorio personale, l’empatia mai nata col tipo di gioco di Berdych, mi è scattata leggendo una sua icastica riflessione sensoriale.

E succede che mi ritrovo qui, davanti alla semifinale del Master 1000 di Madrid, a tifare per Tomas Berdych, tennista tutto d’un pezzo che cerca nel tatto il proprio destino.

Rafa è Rafa

Spalla sinistra, spalla destra, naso, orecchio destro, naso, orecchio sinistro, naso, sei palleggi, lancio della palla, estensione del braccio, impatto a 200 km orari.

Questo è Rafael Nadal.

Ad ogni turno di servizio un eterno rituale, una serie ripetitiva di scaramanzie, una vera ossessione.

Come quella delle bottigliette d’acqua e di integratori da cui beve sempre nella stessa sequenza e che appoggia al suolo nella stessa identica posizione, solo dopo avere accuratamente avvitato i tappi con gli stessi identici movimenti. Ogni volta così, ogni cambio di campo di ogni partita da quando Rafa è Rafa. Un tennista diverso da tutti gli altri.

Se cercate sue immagini in rete ne troverete una impressionante: Rafa che colpisce un rovescio senza maglietta. Una montagna spaventosa di fasce muscolari in tensione, una tartaruga Ninja. Raffaello, appunto. Di uno così pensereste che fa il culturista, non di certo che pratica lo sport dell’eleganza perché ha un corpo disumano, che spaventa. E un talento altrettanto disumano perché contrario alle regole del tennis in cui la potenza fisica dovrebbe essere bilanciata dalla raffinatezza del gioco cha Nadal proprio non ha.

Rafa è preciso, potente, coordinato, padrone del campo, ma ogni maestro che si rispetti non consiglierebbe mai ad un allievo di imitare i suoi colpi. Soprattutto quel dritto a 360° che nessun manuale del tennis potrebbe mai contemplare, che sa fare solo lui e che riesce sempre a mettere dove vuole.

Oggi Nadal ha deluso dicevano i commentatori sportivi. Io dico di no, dico che a Rafa si perdona tutto, anche di essersi fatto sovrastare da Djokovic nella finale del torneo di Montecarlo, quello che inaugura la stagione della terra rossa, la sua superficie preferita, il campo di cui è Re incontrastato.

Oggi a Rafa è mancato il rovescio e la convinzione di poter vincere per l’ottava volta consecutiva il suo torneo portafortuna dicevano altri commentatori.

Io dico che il rovescio e la convinzione torneranno e che a Rafa si perdona tutto.

Perché Rafa non è perfetto, Rafa è unico.

Il colpo perfetto

Di palline ne ho colpite milioni nella mia vita. Milioni di colpi da eterna principiante. Talento tennistico non ne ho affatto, pura passione e divertimento mi spingono a giochicchiare ancora. Ho sempre ambito al colpo perfetto e dacché mi ricordi, io, di colpi perfetti ne ho prodotti ben pochi, nell’ordine delle decine o poco più.

Quando inizi a giocare a tennis, che tu abbia otto anni o cinquanta, l’insegnante cerca di inculcarti la prima regola aurea: devi concepire la racchetta come il prolungamento naturale del tuo braccio. La racchetta fa parte del tennista, è la sua estensione, il suo raccordo con il campo e con la logica del gioco. Finché non avrai fatto tuo questo semplice concetto, non potrai imparare a giocare, mettitelo bene in testa!

A otto anni, interpretando alla lettera le parole della mia maestra di tennis di allora, cercavo di capire su quale braccio dovevo concentrarmi quando colpivo i miei primi rovesci a due mani. Prolungamento del destro, del sinistro o di entrambi? Domanda puerile, direte voi. E invece no, perché quando a quell’età ti dicono che seguire pedissequamente le regole è l’unico modo per capirci qualcosa in uno sport così tecnico e complicato, ti interroghi su ogni minimo dettaglio e anche la domanda più banale può diventare un difficile rompicapo.

Ma ai bambini, si sa, le regole non piacciono; seguono l’istinto, che è più semplice.

E così, pallina dopo pallina, in barba alle regole del maestro, anche il più piccolo dei tennisti trova una maniera soggettiva di rapportarsi con la racchetta e una modalità di gioco che gli appartenga completamente, una vera e propria impronta personale.

Della prima regola aurea, dopo un po’, non ci si ricorda nemmeno più, perché si impara a giocare soprattutto con l’istinto. E’ un impulso naturale che guida il tennista a cogliere il senso del gioco e a “sentire” la palla.

La vera differenza fra chi è un tennista e chi non lo sarà mai, sta proprio nel colpo perfetto. Che non è quel colpo in cui magicamente tutte le regole del tennis si materializzano in un unico gesto atletico da integrale interpretazione del manuale.

No, il colpo perfetto è tutt’altra cosa. E’ quel colpo il cui rumore non lascia margini di dubbio. La pallina rimbalza nel punto esatto del piatto corde e restituisce un suono pieno, sordo, rotondo, senza sbavature.

Quel suono è la musica del tennista.

Ascoltate i colpi di Raphael Nadal, uno che di regole del tennis ne ha sovvertite parecchie. Vi sfido a trovare un solo colpo di Rafa che non sia perfetto.

Perché la tecnica non è tutto, il tennis è anche musica.

Con la racchetta in mano

Di anni ne avevo solo otto quando, goffa ed impacciata, trascorrevo i pomeriggi a palleggiare contro il muro di casa. Uscivo con qualsiasi condizione climatica, abbassavo le tapparelle per non mandare in frantumi i vetri del salotto e della camera da letto, scendevo di corsa le scale e, per interi pomeriggi, scagliavo palline contro un vecchio muro marrone e due tapparelle di plastica grigia. Aspettavo che mio padre uscisse dalla fabbrica e mi facesse da sparring partner nella via chiusa che fiancheggiava la nostra palazzina. Pochi minuti dopo il suono della sirena, mio padre era lì, pronto ad insegnarmi l’essenza del tennis: il dritto, il rovescio ed il suo colpo preferito, la veronica.

Eravamo belli. Io con il fiato corto dopo le ore trascorse a palleggiare e lui, stremato dal lungo turno in officina, felice di poter trasmettere alla sua bambina la passione per uno sport che amava anche più del calcio.

I vicini che ci guardavano dalle finestre erano il nostro pubblico improvvisato e quando qualche abitante della via rincasava dal lavoro si fermava ad osservarci, ci incitava e sorrideva delle nostre palline vaganti.

Quella via chiusa, che a guardarla ora mi sembra così stretta e corta, era il nostro prato di Wimbledon, la nostra terra rossa del Roland Garros, il nostro campo di Davis. L’asfalto sconnesso impediva un gioco regolare, il profilo del marciapiede faceva fare strani rimbalzi alle palline, le racchette erano vecchie e malmesse, ma la voglia di giocare vinceva ogni ostacolo e finché non faceva buio, non rincasavamo.

Era la fine degli anni ’70 e la mia racchetta, di legno scolorito, aveva il manico consunto dall’uso e le corde un po’ allentate, perché nessuno mai le aveva “tirate”.

Mi piaceva impugnarla anche quando non giocavo perché, con la racchetta in mano, mi sentivo una campionessa: Martina Navratilova quando immaginavo di stendere le avversarie con potenza e precisione, Chris Evert nelle giornate in cui ero in vena di un’algida eleganza. Insomma, ero la numero uno o la numero due del mondo.

Per pochi anni a seguire, purtroppo, ho potuto condividere questa passione con chi me l’ha regalata. Sto cercando di donarla ai miei ragazzi perché tutt’ora, ogni volta che impugno una racchetta, penso a quel legame filiale che si cementificava ogni pomeriggio nella via chiusa di fianco a casa.

Quando una passione unisce così tanto, credo vada mantenuta, anche quando l’altro non c’è più.

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