Storia di David, eterno secondo

Arrivare a un soffio dalla vittoria e vederla scivolare fra le dita è la condanna degli eterni secondi.

David Ferrer è un terraiolo eccezionale, un tennista astuto, dalle intuizioni brillanti, intelligente nelle scelte di gioco e rispettoso negli atteggiamenti in campo. La differenza fra lui e gli altri giocatori del ranking mondiale è evidente: in campo David è un furetto, un razzo, una saetta. Merito delle gambe corte e dell’elasticità dei movimenti. I suoi spostamenti laterali sulle ginocchia molleggiate disorientano l’avversario e quegli scatti improvvisi e fulminanti, non c’è Rafa né Nole che possano eguagliarli. Rapidità e agilità sono i suoi contrassegni, umiltà e serietà le cifre distintive del suo carattere. David è un campione vero, anche se non ha mai potuto dimostrarlo fino in fondo.

Cresciuto sui campi di terra battuta nella stessa Spagna di Nadal, David ha avuto la sfortuna di essere quasi coetaneo di Rafa e di giocare nel ranking dovendosi sempre confrontare con lui. Fosse nato un decennio prima avrebbe vissuto una lunga stagione da numero uno sulla terra rossa prima dell’era Nadal. Perché a Ferrer non manca nulla: ha potenza, precisione nel gioco e quella maturità tennistica che risiede nel cervello, più che nelle braccia.

Oggi, sul campo centrale del Roland Garros, David gioca la partita più importante della sua vita, la sua prima finale di un Grande Slam contro l’amico e rivale Rafael Nadal.

Ventitré scontri diretti, diciannove vittorie di Rafa. Precedenti che pesano come macigni sulle gambe scattanti di David. I bookmaker inglesi danno Nadal vincente all’80% perché Rafa è Rafa e solo un pazzo gli scommetterebbe contro.

Io, però, oggi tifo Ferrer perché gli eterni secondi hanno il sacrosanto diritto di arrivare primi, almeno una volta nella vita.

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Righe agli Internazionali

Imponenti statue di discoboli e maratoneti circondano il più bel campo da tennis del mondo. Infossato come un anfiteatro classico, lo stadio Nicola Pietrangeli ha la terra rossa più suggestiva di tutto il circuito ATP.

Giocare qui, dicono i più grandi tennisti del mondo, è un’emozione unica, è come fare un balzo nella storia, immersi nella magia di Roma, la città senza tempo.

Pini marittimi e morbidi prati incorniciano il complesso del Foro Italico dove ha sede un esclusivo circolo di tennis che nei giorni degli Internazionali diventa luogo per tutti, ritrovo a prezzi popolari per gli appassionati di questo sport provenienti da ogni angolo d’Italia.

Quando avevo undici anni, l’età che ha ora mio figlio maggiore, avrei dato qualsiasi cosa per poter assistere a questo torneo. Immaginavo i miei idoli, Ivan Lendl e Mats Wilander affrontarsi su una superficie per loro ostica, quella che Andre Agassi ha sempre definito vischioso pantano.

Oggi sono qui con i miei ragazzi, desiderosi quanto me di vedere Federer e Nadal, la Errani e la Williams.

Insieme agli Internazionali.

Stadio Pietrangeli

España

Viene voglia di essere spagnoli in questa domenica di maggio in cui centinaia di bandiere rojigualda sventolano sul circuito di Barcellona e in cui si ode un unico coro inneggiante Rafa sulla terra rossa di Madrid. Una domenica di sole che decreta in via definitiva Fernando Alonso e Rafael Nadal impareggiabili campioni mondiali, talenti superlativi nella loro terra natia. Finalmente una domenica di festa per un Paese sanguigno e tribolato quasi quanto il nostro.

A Barcellona Fernando, quinto in griglia di partenza, ha dominato il Gran premio di casa con una determinazione sbalorditiva. Una vittoria voluta più di ogni altra, con un sorpasso stratosferico al primo giro e una strategia di gara finalmente perfetta.

Li vorrei tutti così i podi di questo mondiale 2013. Fernando in vetta, iceman Kimi al suo fianco e Felipe a chiudere la fila. Il passato e il presente della Ferrari che abbracciano il team manager Stefano Domenicali completamenti grondanti di bollicine vittoriose.

Sul campo centrale di Madrid Rafa ha impartito allo svizzero Wawrinka una lezione di tennis su terra battuta. Nella sua quinta finale consecutiva dall’inizio dell’anno, ha dimostrato che, se non c’è Nole sul suo cammino, può arrivare ovunque, scalare la classifica mondiale e risalire dal quel penalizzante quinto posto verso cui è scivolato dopo i problemi fisici dello scorso anno. I numeri parlano per lui: dopo sette mesi fuori dai campi, ha giocato sette tornei e cinque finali di cui due vinte. Sentirlo ringraziare il pubblico della sua capitale con quella sciolta parlata maiorchina fa quasi commuovere perché Rafa è tornato e il tennis ne aveva bisogno.

Fernando e Rafa, España!

Rafa è Rafa

Spalla sinistra, spalla destra, naso, orecchio destro, naso, orecchio sinistro, naso, sei palleggi, lancio della palla, estensione del braccio, impatto a 200 km orari.

Questo è Rafael Nadal.

Ad ogni turno di servizio un eterno rituale, una serie ripetitiva di scaramanzie, una vera ossessione.

Come quella delle bottigliette d’acqua e di integratori da cui beve sempre nella stessa sequenza e che appoggia al suolo nella stessa identica posizione, solo dopo avere accuratamente avvitato i tappi con gli stessi identici movimenti. Ogni volta così, ogni cambio di campo di ogni partita da quando Rafa è Rafa. Un tennista diverso da tutti gli altri.

Se cercate sue immagini in rete ne troverete una impressionante: Rafa che colpisce un rovescio senza maglietta. Una montagna spaventosa di fasce muscolari in tensione, una tartaruga Ninja. Raffaello, appunto. Di uno così pensereste che fa il culturista, non di certo che pratica lo sport dell’eleganza perché ha un corpo disumano, che spaventa. E un talento altrettanto disumano perché contrario alle regole del tennis in cui la potenza fisica dovrebbe essere bilanciata dalla raffinatezza del gioco cha Nadal proprio non ha.

Rafa è preciso, potente, coordinato, padrone del campo, ma ogni maestro che si rispetti non consiglierebbe mai ad un allievo di imitare i suoi colpi. Soprattutto quel dritto a 360° che nessun manuale del tennis potrebbe mai contemplare, che sa fare solo lui e che riesce sempre a mettere dove vuole.

Oggi Nadal ha deluso dicevano i commentatori sportivi. Io dico di no, dico che a Rafa si perdona tutto, anche di essersi fatto sovrastare da Djokovic nella finale del torneo di Montecarlo, quello che inaugura la stagione della terra rossa, la sua superficie preferita, il campo di cui è Re incontrastato.

Oggi a Rafa è mancato il rovescio e la convinzione di poter vincere per l’ottava volta consecutiva il suo torneo portafortuna dicevano altri commentatori.

Io dico che il rovescio e la convinzione torneranno e che a Rafa si perdona tutto.

Perché Rafa non è perfetto, Rafa è unico.

Il colpo perfetto

Di palline ne ho colpite milioni nella mia vita. Milioni di colpi da eterna principiante. Talento tennistico non ne ho affatto, pura passione e divertimento mi spingono a giochicchiare ancora. Ho sempre ambito al colpo perfetto e dacché mi ricordi, io, di colpi perfetti ne ho prodotti ben pochi, nell’ordine delle decine o poco più.

Quando inizi a giocare a tennis, che tu abbia otto anni o cinquanta, l’insegnante cerca di inculcarti la prima regola aurea: devi concepire la racchetta come il prolungamento naturale del tuo braccio. La racchetta fa parte del tennista, è la sua estensione, il suo raccordo con il campo e con la logica del gioco. Finché non avrai fatto tuo questo semplice concetto, non potrai imparare a giocare, mettitelo bene in testa!

A otto anni, interpretando alla lettera le parole della mia maestra di tennis di allora, cercavo di capire su quale braccio dovevo concentrarmi quando colpivo i miei primi rovesci a due mani. Prolungamento del destro, del sinistro o di entrambi? Domanda puerile, direte voi. E invece no, perché quando a quell’età ti dicono che seguire pedissequamente le regole è l’unico modo per capirci qualcosa in uno sport così tecnico e complicato, ti interroghi su ogni minimo dettaglio e anche la domanda più banale può diventare un difficile rompicapo.

Ma ai bambini, si sa, le regole non piacciono; seguono l’istinto, che è più semplice.

E così, pallina dopo pallina, in barba alle regole del maestro, anche il più piccolo dei tennisti trova una maniera soggettiva di rapportarsi con la racchetta e una modalità di gioco che gli appartenga completamente, una vera e propria impronta personale.

Della prima regola aurea, dopo un po’, non ci si ricorda nemmeno più, perché si impara a giocare soprattutto con l’istinto. E’ un impulso naturale che guida il tennista a cogliere il senso del gioco e a “sentire” la palla.

La vera differenza fra chi è un tennista e chi non lo sarà mai, sta proprio nel colpo perfetto. Che non è quel colpo in cui magicamente tutte le regole del tennis si materializzano in un unico gesto atletico da integrale interpretazione del manuale.

No, il colpo perfetto è tutt’altra cosa. E’ quel colpo il cui rumore non lascia margini di dubbio. La pallina rimbalza nel punto esatto del piatto corde e restituisce un suono pieno, sordo, rotondo, senza sbavature.

Quel suono è la musica del tennista.

Ascoltate i colpi di Raphael Nadal, uno che di regole del tennis ne ha sovvertite parecchie. Vi sfido a trovare un solo colpo di Rafa che non sia perfetto.

Perché la tecnica non è tutto, il tennis è anche musica.

Con la racchetta in mano

Di anni ne avevo solo otto quando, goffa ed impacciata, trascorrevo i pomeriggi a palleggiare contro il muro di casa. Uscivo con qualsiasi condizione climatica, abbassavo le tapparelle per non mandare in frantumi i vetri del salotto e della camera da letto, scendevo di corsa le scale e, per interi pomeriggi, scagliavo palline contro un vecchio muro marrone e due tapparelle di plastica grigia. Aspettavo che mio padre uscisse dalla fabbrica e mi facesse da sparring partner nella via chiusa che fiancheggiava la nostra palazzina. Pochi minuti dopo il suono della sirena, mio padre era lì, pronto ad insegnarmi l’essenza del tennis: il dritto, il rovescio ed il suo colpo preferito, la veronica.

Eravamo belli. Io con il fiato corto dopo le ore trascorse a palleggiare e lui, stremato dal lungo turno in officina, felice di poter trasmettere alla sua bambina la passione per uno sport che amava anche più del calcio.

I vicini che ci guardavano dalle finestre erano il nostro pubblico improvvisato e quando qualche abitante della via rincasava dal lavoro si fermava ad osservarci, ci incitava e sorrideva delle nostre palline vaganti.

Quella via chiusa, che a guardarla ora mi sembra così stretta e corta, era il nostro prato di Wimbledon, la nostra terra rossa del Roland Garros, il nostro campo di Davis. L’asfalto sconnesso impediva un gioco regolare, il profilo del marciapiede faceva fare strani rimbalzi alle palline, le racchette erano vecchie e malmesse, ma la voglia di giocare vinceva ogni ostacolo e finché non faceva buio, non rincasavamo.

Era la fine degli anni ’70 e la mia racchetta, di legno scolorito, aveva il manico consunto dall’uso e le corde un po’ allentate, perché nessuno mai le aveva “tirate”.

Mi piaceva impugnarla anche quando non giocavo perché, con la racchetta in mano, mi sentivo una campionessa: Martina Navratilova quando immaginavo di stendere le avversarie con potenza e precisione, Chris Evert nelle giornate in cui ero in vena di un’algida eleganza. Insomma, ero la numero uno o la numero due del mondo.

Per pochi anni a seguire, purtroppo, ho potuto condividere questa passione con chi me l’ha regalata. Sto cercando di donarla ai miei ragazzi perché tutt’ora, ogni volta che impugno una racchetta, penso a quel legame filiale che si cementificava ogni pomeriggio nella via chiusa di fianco a casa.

Quando una passione unisce così tanto, credo vada mantenuta, anche quando l’altro non c’è più.

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