Non mi è mai piaciuto Tomas Berdych, tennista ceco, sesto al mondo nel ranking ATP. E’ un picchiatore della palla, uno che pensa solo al proprio gioco, che non attua strategie né possiede finezze, che crede solo nella propria forza fisica e si concentra su come sfruttarla al meglio.
Dal mio osservatorio personale, che di tecnico ha poco e di empatico quasi tutto, ho sempre considerato Berdych un tennista scarsamente in sintonia col campo. Uno molto forte, ma un po’ legnoso, privo di scioltezza, a tratti rigido, un atleta imponente e poco flessibile.
Insomma Berdych non rientra fra i miei tennisti preferiti ma, leggendo una sua recente intervista, mi sono resa conto che l’ho sempre sottovalutato. Fra decine di domande banali del tipo “Cosa fai prima di dormire?” a cui seguono risposte altrettanto banali del tipo: “Niente! Chiudo gli occhi”, risposte che ti fanno pensare che gli sportivi di professione non siano particolarmente profondi nelle riflessioni, ne compare una così:
D: Qual è il senso più importante?
R: Il tatto. Per sentire di avere il destino nelle mani.
Una risposta così ribalta completamente il mio osservatorio personale, l’empatia mai nata col tipo di gioco di Berdych, mi è scattata leggendo una sua icastica riflessione sensoriale.
E succede che mi ritrovo qui, davanti alla semifinale del Master 1000 di Madrid, a tifare per Tomas Berdych, tennista tutto d’un pezzo che cerca nel tatto il proprio destino.
Parole e lettere rimaste sulle dita: “Tomas Berdych: a modo suo un poeta del tennis. Non sempre la poesia ha il suono dolce e vellutato d’un violino, a volte è ruvida come la carezza di una mano amorevolmente callosa”.