Non è la Mazzantini che preferisco quella de Il catino di zinco.
Forse ho fatto l’errore di leggere a ritroso i suoi racconti approdando al primo romanzo solo dopo aver letto tutti gli altri. E magari la Mazzantini degli albori non aveva ancora il vigore narrativo di Non ti muovere o di Venuto al mondo, romanzi che ho adorato, consigliato, regalato.
Sta di fatto che ho come la sensazione di non averlo capito Il catino di zinco. Come se mi fossero sfuggiti dei passaggi importanti che, però, non ho nessuna voglia di andare a scovare rileggendolo.
La trama è presto fatta: la vita di una nonna – orgogliosa, forte, testarda, fascista – raccontata dalla nipote. Per tutto il libro, non so perché, mi chiedevo quando avrei saputo qualcosa in più di questa nipote narratrice e invece fino alla fine ho trovato solo nonna Antenora. Può darsi che la mia attenzione sia stata catturata dal personaggio sbagliato o, forse, sono solo un po’ sbagliata io in questi giorni di faticosa lettura.
Sulla quarta di copertina, oltre ad un’immagine leggiadra di Margaret scattata dal marito, c’è una frase di Ferdinando Camon. Dice Camon che chi ha letto il Catino, non lo dimentica.
Non so cosa non dimenticherò di questo libro, ma so di certo cosa voglio dimenticare: tutte le descrizioni di escrementi, di olezzi, di sudiciume, di mutande sporche messe a lavare dentro al catino di zinco.
Perdonate se banalizzo, ma io il catino l’ho vissuto così, non molto bene.