Il suggeritore

Non ha niente da invidiare a Jeffery Deaver, a Tom Rob Smith o ai grandi narratori nordici di omicidi efferati l’italianissimo Donato Carrisi che con Il Suggeritore ha angustiato per giorni e giorni i miei pensieri facendoli diventare torvi.

E non ha niente da invidiare nemmeno a Joël Dicker perché, a differenza de La verità sul caso Harry Quebert, di buchi nella trama de Il Suggeritore non ce ne sono. Ogni segmento della storia è architettato alla perfezione, ogni tassello trova il proprio incastro millimetrico in una trama che immagino concepita a ritroso in spirali concentriche e meticolosamente cesellate.

Con una prosa semplice e pulita Carrisi racconta di un inferno di bambine rapite e atrocemente menomate prima di essere uccise; di una poliziotta incapace di provare empatia con gli altri esseri umani e che nel destino ha scritto la parola salvatrice; di un concatenarsi di menti crudeli assoggettate al dominio del suggeritore.

Le storie di serial killer, se scritte bene, tengono in tensione il lettore. I dettagli sono truci, impossibili da concepire per una mente sana, gli accadimenti sono paurosi e ferocemente primitivi. Nel leggerli ci si ritrova immersi in un abisso inverosimile che Carrisi fa sembrare credibile e pericolosamente vicino.

Mi ha destabilizzata questo scrittore tarantino perché il Suggeritore non ha ambientazione. Bisogna immaginarselo il luogo fisico del mondo in cui collocarlo. Viene da pensare agli Stati Uniti per il tipo di cultura descritta, per i richiami ai casi reali di serial killer americani, per il cibo, le case, le task force da cinema poliziesco made in Usa.

Però, a ben pensarci, potrebbe essere qualsiasi altro paese occidentale.

E quando non si sa dove ci si trova, vuol dire che potrebbe essere ovunque, anche dietro casa nostra.

I bambini non vedono la morte. Perché la loro vita dura un giorno, da quando si svegliano a quando vanno a dormire.

Il suggeritore

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La verità sul caso HQ

La verità sul caso HQ

Non si può partire per le ferie senza portarsi dietro il best seller dell’estate, anche se La verità sul caso Harry Quebert pensa ottocento grammi e rischia di farti sballare il peso della valigia al check in.

Ottocento grammi per ottocento pagine. Numeri che scoraggiano, non solo perché sono certa che un tale peso, sfogliato in spiaggia, risveglierà la mia tendinite al braccio sinistro, ma perché dubito di reggere una tale mole di parole sotto il sole cocente di Tharros, spiaggia dal mare turchino abbracciata dalle incantevoli rovine fenicie del VII secolo a.C.

E invece lo polverizzo in una manciata di giorni perché un collante potentissimo mi tiene attaccata al libro; mi immergo senza sosta in questo giallo retrodatato nel tempo in cui vorticano decine di personaggi, di situazioni, di ricordi.

Uno scrittore d’oggi indaga, per amicizia e lealtà, su uno scrittore di ieri accusato di un truce omicidio. Ogni pagina è un inganno, ogni personaggio mente, persino le ricostruzioni dei fatti sono mendaci. La sa lunga Joël Dicker, il giovanissimo autore svizzero che si prende gioco del lettore trattandolo come si trattano i bambini un po’ ingenui, con astuzia e accondiscendenza.

E quando, raggiunti i tre quarti del romanzo, ti viene da pensare: “Eh no caro Dicker, ti ho fregato, adesso ho capito tutto!”, basta una pagina in più per renderti conto che non avevi capito niente, è lui che ha fregato te.

Mi rimane un dubbio, una piccola falla nella trama, un passaggio illogico che non so spiegarmi. Forse è colpa della lettura vorace, del sole di Tharros o della tendinite prevedibilmente dolente. Mio marito, che l’ha trangugiato come me sotto lo stesso sole, ha il medesimo dubbio.

Devo confrontarmi con qualcun altro. Aspetto che lo legga la Lisa.