L’anno dei misteri

L’avevo un po’ trascurato il Commissario Bordelli. Credo per via di una certa stanchezza o anche solo della necessità di prendere, di tanto in tanto, le distanze da storie ormai ripetitive, come inevitabilmente lo sono tutte quelle “seriali”.

E ho fatto bene a lasciare Vichi in stand by per un po’ perché riprenderlo in mano alla giusta distanza di tempo mi ha fatto capire di sentirne, in un certo senso, la mancanza.

Ne L’anno dei misteri ho ritrovato la sua prosa limpida e sciolta, ho scoperto una trama che si dipana su più livelli, ho ritrovato personaggi noti e ormai cari, rinvigoriti da nuove fasi che si aprono e pacificati da vecchi capitoli che si chiudono.

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Una brutta faccenda

Un tangibile senso di famiglia pervade le pagine del secondo Bordelli.
Il commissario Bordelli non ha moglie, né figli, è un uomo solo.

Eppure una famiglia ce l’ha: una parentela affettiva che si compone a pezzi, un nucleo famigliare che all’anagrafe non potrebbe essere riconosciuto, un vincolo senza sangue che scalda le fredde serate di una primavera che tarda ad arrivare.

Perché c’è Rosa, il suo rifugio, la comprensione, le sue mani da baciare. La prostituta a risposo che sa tenergli compagnia anche senza parlare, che sferruzza per lui improbabili maglioni verdi, che gli versa bicchieri di cognac cantando canzoni stonate. La donna che da anni lo aspetta e lo accetta, quella che lo vorrebbe amare ben sapendo che amanti non potranno mai essere.
E perché ci sono Piras e Totò, il Botta e Dante, Mugnai e Diotivede. L’universo bordelliano che contorna le sue giornate.

E poi c’è la notte, le ore più piccole dell’orologio, il buio pesto in cui il mondo interiore di Bordelli riemerge, dentro cui annega i suoi ricordi di guerra fissando il vuoto in attesa che il sonno finalmente lo allontani dalla sua endemica solitudine.

Infine c’è il giallo, una brutta faccenda di bambine assassinate che si intreccia con un passato nazista da dimenticare.

E’ solo il mio secondo libro di Marco Vichi; ce ne sono altri nella libreria che mi aspettano, per fortuna.

Bè, in fondo non ci credeva troppo nemmeno lui, all’amore. L’amore non esisteva veramente, pensò, era solo un modo come un altro di sperare che qualcosa non finisca mai. Un delirio tutto umano, molto poco intelligente.

Un brutta faccenda

Il commissario Bordelli

E’ possibile affezionarsi ad un personaggio dopo aver letto di lui solo una manciata di pagine? A me è successo con Il commissario Bordelli, poliziotto dal cuore generoso creato dalla fantasia di Marco Vichi. A pagina venti mi sembrava già uno di casa, un amico fidato con cui fare lunghe e rassicuranti chiacchierate. E quando un personaggio si insinua così rapidamente nella mente del lettore, vuol dire che l’autore ha fatto centro. O almeno, con me l’ha fatto.

E’ la Firenze degli anni sessanta che fa da sfondo alla trama del romanzo, è la città deserta di uomini nel mese di agosto, affollata solo di zanzare irriducibili, di sigarette fumate a metà e di lattine di birra ghiacciate.
Bordelli è un uomo solo che ama ascoltare aneddoti del passato, che rievoca episodi di guerra, che racconta di legami forti nati in trincea. Tiene vivi i ricordi circondandosi di amici eccentrici e come lui soli: un medico legale ottantenne, un ladruncolo chef, una prostituta amante dei gatti, un inventore pazzo che si circonda di topi, un cugino follemente innamorato, un giovane poliziotto sardo figlio del suo compagno d’armi.

E’ questo l’universo sentimentale di Bordelli, il variegato panorama esistenziale con cui condivide i suoi momenti di umanità.

E poi si, ci sono anche un omicidio e un colpevole da scoprire, ma sono dettagli, non il fulcro del romanzo.

Bordelli ha una sua forza, è racconto a sé, vale la pena leggerlo per scoprire di lui.

Voleva dimenticarsi di avere cinquantatré anni,
di essere un orso malinconico senza più voglia di fare sogni,
un vecchio affezionato alla solitudine, incapace di aprirsi veramente.

Il Commissario Bordelli