Mi veniva da storcere il naso mentre lo leggevo, devo aver fatto diverse smorfie con la bocca, di quelle dubbiose che mi vengono spontanee quando le righe che scorrono sotto i miei occhi non mi convincono del tutto. Ho aggrottato le sopracciglia in diversi passaggi, come a rimarcare le mie perplessità; eppure leggevo, non mi fermavo, ci sono arrivata in fondo senza nemmeno accorgermene perché le pagine di Murakami scorrono via, veloci, senza fronzoli né orpelli.
E’ una storia banale quella di A sud del confine, a ovest del sole: un amore nato sui banchi di scuola e mai dimenticato, un amore non vissuto che ripiomba nelle vite adulte e le sconvolge.
Niente di originale nella storia di Hajime e Shimamoto, niente di particolarmente avvincente, solo un vago alone di mistero che non si svelerà, inutile sperarci. Però c’è un finale, una chiusura comprensibile, un senso compiuto. Poco rimane da immaginare per gli adepti di Murakami che adorano l’immaginifico: di mondi ce n’è uno solo ed è quello reale, dove le cose hanno un inizio ed una fine, dove ciò che si realizza è solo la vita vera. I contorni sono definiti, tutto è concreto e tangibile, i sogni non trovano spazio.
Il titolo è la parte più bella del romanzo, fa pensare ad un luogo che non esiste, talmente è evocativo. Forse vale il romanzo, o forse no. Io penso che ne valga la pena, comunque.
Quando ci penso, mi rendo conto che viviamo in un numero veramente limitato di possibilità.