Un tangibile senso di famiglia pervade le pagine del secondo Bordelli.
Il commissario Bordelli non ha moglie, né figli, è un uomo solo.
Eppure una famiglia ce l’ha: una parentela affettiva che si compone a pezzi, un nucleo famigliare che all’anagrafe non potrebbe essere riconosciuto, un vincolo senza sangue che scalda le fredde serate di una primavera che tarda ad arrivare.
Perché c’è Rosa, il suo rifugio, la comprensione, le sue mani da baciare. La prostituta a risposo che sa tenergli compagnia anche senza parlare, che sferruzza per lui improbabili maglioni verdi, che gli versa bicchieri di cognac cantando canzoni stonate. La donna che da anni lo aspetta e lo accetta, quella che lo vorrebbe amare ben sapendo che amanti non potranno mai essere.
E perché ci sono Piras e Totò, il Botta e Dante, Mugnai e Diotivede. L’universo bordelliano che contorna le sue giornate.
E poi c’è la notte, le ore più piccole dell’orologio, il buio pesto in cui il mondo interiore di Bordelli riemerge, dentro cui annega i suoi ricordi di guerra fissando il vuoto in attesa che il sonno finalmente lo allontani dalla sua endemica solitudine.
Infine c’è il giallo, una brutta faccenda di bambine assassinate che si intreccia con un passato nazista da dimenticare.
E’ solo il mio secondo libro di Marco Vichi; ce ne sono altri nella libreria che mi aspettano, per fortuna.
Bè, in fondo non ci credeva troppo nemmeno lui, all’amore. L’amore non esisteva veramente, pensò, era solo un modo come un altro di sperare che qualcosa non finisca mai. Un delirio tutto umano, molto poco intelligente.