
Non ci avrei scommesso un centesimo sul mio innamoramento letterario per Philip Roth.
L’innata resistenza alla letteratura americana, i tentativi fatti con altri autori e quasi tutti falliti e quel pregiudizio a lungo maturato che fa desistere di fronte all’impulso di provarci ancora mi avevano sconfortata nel corso degli anni. Per fortuna la tenacia ha vinto, la scintilla è scoccata ed è diventata fuoco crescente nel leggere la Trilogia di Zuckerman dove la letteratura è al centro di ogni cosa, gli ebrei d’America le ruotano intorno e a permeare la scena c’è l’ardore. Un ardore che diventa rabbia, sconforto, autocommiserazione e che si fa dissoluzione, esaltazione e furore nelle fasi alterne della vita di Nathan Zuckerman, lo scrittore protagonista, per cui il successo è frivolo e le sconfitte sono macigni.
Ognuno dei tre romanzi ha una precipua peculiarità ossessiva nel suo dipanarsi fra periodi lunghissimi e monologhi interiori dal ritmo asfittico. Ognuno dei tre ritaglia spazi dominanti per le donne e il sesso, in un climax ascendente da esagerazione parossistica. Ognuno dei tre incatena chi legge alle pagine rabbiose, perché a Zuckerman ci si affeziona, nonostante tutto.
“Gli ebrei della Bibbia si trovano sempre in situazioni estremamente drammatiche, ma non hanno mai imparato a scrivere una buona tragedia. Mica come i greci, secondo me. I greci sentivano uno starnuto, e via! Chi ha starnutito diventa un eroe, chi ha parlato dello starnuto diventa il messaggero, quelli che hanno udito lo starnuto diventano il coro. Tanta pietà, tanto terrore, tanta drammaticità e suspense. Non c’è, questo, negli ebrei della Bibbia. Lì non fanno che parlamentare con Dio, ventiquattr’ore al giorno”
Pure io solitamente non amo la letteratura americana. Ma fortunatamente ho trovato delle eccezioni, tipo, per l’appunto Roth. 😉
Siamo d’accordo, allora. 🙂