Vago, in cerca di qualcosa che mi rassicuri

 

Giusé

Vago, in cerca di qualcosa che mi rassicuri.
Spunti sempre fuori tu, Pierluigi, con tutte le ambivalenze che ti porti dietro.
Doppio nel nome, ambiguo nei comportamenti, sfuggente negli affetti.
Ogni tua mancanza ricade su di me.
Nella mia agitazione notturna, col chiarore artificiale dei lampioni che filtra dalle persiane, il tuo ricordo sfocato si fa effigie tangibile davanti ai miei occhi. Ti vedo ingombrante, sagoma ossessiva nel mio presente, simulacro di ogni mia insicurezza. Sei l’uomo pavido che mi ha disconosciuto come figlio, la paternità non era cosa per te, dicevi. Andavi, tornavi, sparivi, ogni tanto ti mostravi, mai ti interessavi.
Cerco un senso nelle cose che dico, una ragione nei gesti che compio, una morale nella vita che conduco. Raramente trovo qualcosa, nel mio massacrarmi di domande che rimangono inevase finisco, quasi sempre, per essere svuotato. Poi ti incontro lungo un sentiero, mi dai una pacca sulla spalla e mi dici:
“Tanto lo sai Giusé che non sono nato per essere padre”.
Penso che è come se la terra dicesse ai suoi frutti:
“Non sono nata per crearvi, per crescervi, per amarvi”.
Un’assurdità che non voglio perpetrare.
Ora, che sono padre anch’io, ho portato la mia piccola Elisabetta, che ha sei giorni di vita, in un campo coltivato, l’ho presa in braccio, le ho mostrato il cielo, gli alberi, la campagna, le rotoballe di fieno nella luce di taglio del primo mattino e le ho detto:
“Così è fatta la natura, così siamo noi.”

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