Federico si sdraia nell’erba a pancia in giù.
Sandra se n’è appena andata, gli ha detto addio.
Il giardino è bagnato; la bruma d’ottobre, che da giorni appanna la pianura, è precipitata sul terreno creando una scia d’umidità che penetra Federico sotto forma di malinconia.
I vestiti si irrorano lentamente, Federico non si muove, lascia che l’acqua fresca trapassi i tessuti in tutti gli strati che indossa. Non gli dispiace che la rugiada si insinui nel suo corpo, desidera che l’umidità si diffonda in lui dove già sta transitando il dolore. La guancia sinistra, a contatto con il prato, si intinge nelle gocce polverizzate di pantano e frammenti d’erba. Federico apre le mani a ventaglio e le posa sulle foglie di Carpino, appena cadute dai rami e già intrise di un autunno per lui pesante quanto un addio.
Le guance umide, le mani bagnate, i vestiti fradici, è così che vuole stare Federico perché sa bene che l’abbandono non è un male asciutto, non è uno spasimo secco, né una lama tagliente che all’improvviso oscura la vita. E’ piuttosto qualcosa di madido, che striscia sottocute, fra i nervi e nelle vene, che avanza per gradi, fino ad inzuppare l’esistenza intera.
Federico vede il gatto dei vicini, Pedro, agitarsi in fondo al prato, rincorrere e fermarsi, agguantare e lasciare per poi ricominciare ad inseguire, in una lunga danza di cattura, senza via di scampo. Pedro trotterella verso di lui con il trofeo di caccia finalmente fra le fauci: è un piccolo topo dallo sguardo atterrito, che ancora si dimena fra le grinfie del gatto.
Con quella scena davanti agli occhi Federico si identifica, è la stessa scena che lui e Sandra hanno vissuto in quei quattro lunghi anni d’amore: una serie infinita di mosse e contromosse, un lento avvio alla cesura. Come il gatto con il topo, che prima di finirlo con i denti appuntiti, se lo rigira fra gli artigli, lo mordicchia, lo tiene per la coda.
A volte il gatto era lui, che si sentiva predatore d’amore, più spesso era Sandra, che ci sapeva fare anche con la cattiveria.
Ha vinto lei, che gli ha detto addio senza speranze di replica, che lo ha abbandonato senza nemmeno lasciargli la possibilità di un’ultima zampata sulla punta della coda.
E’ lei il gatto, è lui il topo.
O sono topi tutte due, senza saperlo. A volte è la vita che è il gatto vero!
…e finiamo tutti come topi nelle fauci del destino!
Se devo essere sincera per me Federico non ha perso nulla, anzi gli é pure andata bene… Ma lo scoprirà solo vivendo…
Senza mosse e contromosse Federico riuscirà, forse, a sentirsi più libero. Glielo auguro di cuore, cara Lisa. Bentornata amica mia!
Come lo capisco Federico, essere abbandonati è un dolore che sembra inaffrontabile. E’ durissima risalire. Bello il racconto, grazie Stefy.
Bello il commento. Grazie a te Maria.
per salvarsi a volte i topini fanno finta d’essere morti….il gatto perde interesse e se ne va….
Forse perché si sentono morti dentro, è un meccanismo di difesa istintivo, non solo corporeo. Tu sei un gatto, di queste cose te ne intendi 🙂
Stefy, bellissimo questo racconto. Pedro, eh?mi ricorda qualcosa…
Grazie Robbi! Cercavo il nome di un gatto e mi è venuto in mente il mio Pedro, amato micio di gioventù. Bacio amica.
diceva Steinbeck in un italiano stentato: “Uomini è topi, donne è gatto”.
penso avesse ragione ed è cambiato poco da allora.
ml
Dici ml? Io sono più propensa a pensare che i ruoli che si invertano a seconda delle circostanze.
Buona giornata.
In amor vince chi fugge! o no?
E’ una regola universale!
Qualcuno in una canzone diceva: ”quello che non ho è quello che non mi manca” ma è vero il contrario…
ciao
Quel che non ho, di solito, è proprio quel che voglio… 😉
a chi lo dici! 🙂
🙂