Storia di Glenn in corridoio

Un soggetto così catalizza gli sguardi, attrae e respinge al contempo, di certo non passa inosservato. Strambi i vestiti, l’incedere chiassoso, il tono della voce che si addice di più ad un coro da stadio che ad una corsia d’ospedale.

Lo conoscono in tanti qui in reparto e lo chiamano Glenn. E’ un uomo maturo, ha la pelle scura e i capelli, lievemente ondulati, un tempo erano neri. Li porta corti, ma dalla nuca una lunga treccia ritorta gli scende lungo la schiena. Indossa una camicia floreale con dei gigli paglierini su uno sfondo verde bosco. Ai piedi, un paio di sandali senza calze fanno pensare all’estate, che è lontana da venire.

Cammina incessantemente lungo il corridoio Glenn cercando di percorrere sempre lo stesso tragitto, di calcare le sue stesse orme in un tracciato mentale preciso e sbraitato. Mentre passeggia parla ad alta voce e racconta di sé, di dove ha parcheggiato l’auto, della cena che preparerà, di quanto sia devoto alla sua donna che tutti i giorni lo fa arrabbiare. Gli astanti, me compresa, fingono di ignorarlo, in realtà lo ascoltano interessati.

Il colpo di scena lo riserva per il finale quando, al culmine del pathos narrativo, Glenn rivela al suo pubblico fintamente indifferente che quel modo di parlare sui passi lo ha inventato quando era rinchiuso in carcere, tanti anni fa.

Che sia vero o no, non importa.

C’è sua figlia ricoverata in corsia, una bella ragazza il cui viso pallido e imbarazzato fa capolino dalle ante della porta antipanico che faticosamente socchiude. Glenn la vede e si illumina, le corre incontro dimenticando il maniacale percorso delle orme e teatralmente urla: “Ti amo, ti amo, amore mio!” stampandole un bacio rumoroso nel bel mezzo della fronte.

E’ Glenn in corridoio, una delle tante varianti di questa umanità.

H

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