Con la racchetta in mano

Di anni ne avevo solo otto quando, goffa ed impacciata, trascorrevo i pomeriggi a palleggiare contro il muro di casa. Uscivo con qualsiasi condizione climatica, abbassavo le tapparelle per non mandare in frantumi i vetri del salotto e della camera da letto, scendevo di corsa le scale e, per interi pomeriggi, scagliavo palline contro un vecchio muro marrone e due tapparelle di plastica grigia. Aspettavo che mio padre uscisse dalla fabbrica e mi facesse da sparring partner nella via chiusa che fiancheggiava la nostra palazzina. Pochi minuti dopo il suono della sirena, mio padre era lì, pronto ad insegnarmi l’essenza del tennis: il dritto, il rovescio ed il suo colpo preferito, la veronica.

Eravamo belli. Io con il fiato corto dopo le ore trascorse a palleggiare e lui, stremato dal lungo turno in officina, felice di poter trasmettere alla sua bambina la passione per uno sport che amava anche più del calcio.

I vicini che ci guardavano dalle finestre erano il nostro pubblico improvvisato e quando qualche abitante della via rincasava dal lavoro si fermava ad osservarci, ci incitava e sorrideva delle nostre palline vaganti.

Quella via chiusa, che a guardarla ora mi sembra così stretta e corta, era il nostro prato di Wimbledon, la nostra terra rossa del Roland Garros, il nostro campo di Davis. L’asfalto sconnesso impediva un gioco regolare, il profilo del marciapiede faceva fare strani rimbalzi alle palline, le racchette erano vecchie e malmesse, ma la voglia di giocare vinceva ogni ostacolo e finché non faceva buio, non rincasavamo.

Era la fine degli anni ’70 e la mia racchetta, di legno scolorito, aveva il manico consunto dall’uso e le corde un po’ allentate, perché nessuno mai le aveva “tirate”.

Mi piaceva impugnarla anche quando non giocavo perché, con la racchetta in mano, mi sentivo una campionessa: Martina Navratilova quando immaginavo di stendere le avversarie con potenza e precisione, Chris Evert nelle giornate in cui ero in vena di un’algida eleganza. Insomma, ero la numero uno o la numero due del mondo.

Per pochi anni a seguire, purtroppo, ho potuto condividere questa passione con chi me l’ha regalata. Sto cercando di donarla ai miei ragazzi perché tutt’ora, ogni volta che impugno una racchetta, penso a quel legame filiale che si cementificava ogni pomeriggio nella via chiusa di fianco a casa.

Quando una passione unisce così tanto, credo vada mantenuta, anche quando l’altro non c’è più.

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4 pensieri su “Con la racchetta in mano

  1. …quello che hai scritto penso che sia stato un bellissimo regalo per la festa del papà…come sempre le tue parole regalano bellissime emozioni…tutti abbiamo qualcosa che ci lega in senso profondo alla nostra famiglia…

  2. La descrizione sentita di questo semplice vissuto è stato come vedere di colpo quei vecchi film in bianco e nero che il flou rende fascinosi i primi piani degli attori e quelle voci avevano armonici inimitabili. Anche per me il gioco del tennis col muro fa parte del 95% del mio giocare a tennis. La fantasia e le inevitabili irregolarità di muro e terreno erano i miei avversari più tenaci, i miei mulini a vento. Ciao stimolatrice di fantasie.

  3. Il commento di Elly mostra la mia ottusità. Chiedo venia, soprattutto a Stefania, per non avere colto il riferimento alla festa del papà. Nella mia agenda mentale ho solo l’otto marzo e i compleanni delle persone care (non sempre purtroppo). Le altre le sento come “invenzioni” commerciali un po’ ruffiane pur se muovono l’economia. Le emozioni di “Con la racchetta in mano”, comunque, rimangono e non hanno ne tempo ne data. Grazie.

  4. le passioni nascono un po’ così. Diventano tali perché ci legano ad una persona cara che ce le ha trasmesse. Indissolubili quando quella persona non c’é più, ma continua a manifestare la sua presenza proprio tramite la passione che ci ha lasciato.

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